Serve una certa dose di follia per intraprendere una carriera in un business in perenne mutamento, e forse ancora di più ne serve per focalizzare il proprio percorso sul lato oscuro della settima arte: quello che senza sconti mostra a platee grandi e piccole ciò che alberga nell’angolo più buio di camera nostra mentre cerchiamo di dormire, che corrode la nostra psiche trasformando la sicura quotidianità in angosciante reiterazione, o che semplicemente ha il potere di terrorizzarci a tal punto da farci render conto di essere ancora vivi in un mondo di non-morti.
I dieci cineasti qui sotto elencati hanno fatto proprio questo, ed anche se la lista che vi apprestate a leggere non ha alcuna pretesa di completezza e si basa su gusti e criteri (importanza all’interno del settore, consistenza qualitativa della filmografia, dedizione al genere) del tutto personali, quelli che seguono sono i 10 migliori registi di film horror.
1. Alfred Hitchcock (1899 – 1980)
Da dove cominciare se non dall’uomo capace di insegnare al mondo che la paura poteva essere una forma d’arte vera e propria, come quelle della risata o del pianto già sfruttate prima di lui? Pur distanti dall’autentico orrore, i cinquanta anni trascorsi da Sir Alfred dietro la macchina da presa sono stati un continuo laboratorio in cui sperimentare con colori, suoni, immagini e copioni, fino alla creazione di buona parte dei canoni del cinema spaventoso. La figura dell’omicida seriale oggi a dir poco inflazionata riporta in origine al “Pensionante”, e ritorna nell’espressione inamovibile del Joseph Cotten de “L’Ombra Del Dubbio” prima di cementificarsi nella memoria collettiva sotto gli affilati lineamenti di un Anthony Perkins perso tra le mille allusioni perverse di “Psycho”. Di grande impatto furono poi le oniriche sequenze messe a punto in occasione di “Io Ti Salverò” e “La Donna Che Visse Due Volte”, l’impiego del buio nella risoluzione dell’intreccio de “La Finestra Sul Cortile”, fino all’inaugurazione del filone natura contro battezzato da stormi di “Uccelli” intenti a devastare un piccolo centro abitato della costa californiana. Soliti classici? Certamente, ma per un motivo.
2. Jacques Tourneur (1904 – 1977)
Cosa buona e giusta consigliare a chiunque la storica trilogia siglata RKO Pictures e risalente ad inizio anni Quaranta, sfornata da questo cineasta nato a Parigi e trapiantatosi nel Nuovo Mondo. Forieri di un gusto parecchio misurato ed europeo, capolavori del calibro de “Il Bacio Della Pantera” e “L’Uomo Leopardo” trasferiscono il gotico della Universal nei centri urbani: immuni alle terrificanti creature viste sino ad allora, ma d’altro canto popolate da individui prigionieri delle loro bestiali angosce e segnati da un destino infausto. Accanto a questi sublimi quanto pioneristici esempi di tell, don’t show, figurano nel curriculum di Tourneur pure lo zenit dello zombie pre-romeriano “Ho Camminato Con Uno Zombi”, sognante divagazione haitiana dall’atmosfera mortuaria, ed infine il sottovalutato “La Notte Del Demonio” il quale, con le sue suggestioni celtiche, è l’ideale per dare al proprio Halloween un tocco retrò da fini intenditori.
3. Mario Bava (1914 – 1980)
Bastano i pochi secondi di entrata in scena di Barbara Steele ne “La Maschera Del Demonio”, con tuoni e lampi sullo sfondo ed quel suo volto spiritato, per riservare al regista sanremese Mario Bava un posto a capotavola tra le figure cardine del cinema italiano di genere e non. All’alba degli anni Sessanta, il filone gotico mondiale conosce la propria finest hour grazie appunto a “La Maschera Del Demonio”, ai capitoli secondo e terzo de “I Tre Volti Della Paura” e al trionfo di colori pop visto su “Operazione Paura”. Accantonati vampiri e fantasmi, toccherà sempre a questo ometto dalla sottile ironia e dalle inconfondibili carrellate gettare le basi per il giallo italiano attraverso gli intrecci di “La Ragazza Che Sapeva Troppo” e “Sei Donne Per L’Assassino”, senza tralasciare alcuni esperimenti quali il proto-slasher di “Reazione A Catena”, o la fulminea quanto felice incursione nella fantascienza sfociata nell’inquietante “Terrore Nello Spazio” e nelle sue scenografie ottenute mediante gomma da masticare e dita incrociate: pochi soldi e tanta passione, così come dovrebbe essere.
4. George A. Romero (1940 – 2017)
E ancora in tema di scarsi budget sopperiti dall’innocente piacere di raccontare qualcosa di inedito, nessun film del terrore ha incarnato tale filosofia meglio dell’opera prima di un autore che della politica radicale ha fatto la propria bandiera. In pieno ’68, la caustica satira mascherata da zombie movie de “La Notte Dei Morti Viventi” esplode nei drive-in americani mettendo la società statunitense di fronte allo specchio deformante di sette meschini personaggi rinchiusi dentro un casolare. Intanto, fuori di esso deambulano dei rivissuti affamati di carne umana, e ripresi in un brutale bianco e nero mentre, nello stesso anno, Polanski porta la paura sofisticata nei salotti borghesi di Central Park: il genere, e forse l’intera settima arte, ne escono trasfigurati.
In seguito George A. Romero espande il suo tiro al bersaglio ai danni dello stile di vita a stelle e strisce con il kolossal “Zombi”, per poi tombare mostri ed umani (ma c’è differenza?) nel bagno di sangue sotterraneo che chiude il suo personale capolavoro “Il Giorno Degli Zombi”. Gli anni Novanta non saranno altrettanto magnanimi col maestro di origine cubana, stritolato da case di produzione capaci di affossare qualsiasi progetto e costringerlo a tornare tra le sue creature per una seconda trilogia prontamente ignorata dal pubblico. Di lì a poco arriverà “The Walking Dead” e la musica cambierà, mentre agli amanti del cinema rimarrà l’ultimo fotogramma del difficile “Survival Of The Dead” a chiudere un arco narrativo andato avanti per tre decenni.
5. Wes Craven (1939 – 2015)
Molti celebri cineasti hanno conosciuto periodi di straordinaria ispirazione per poi vivacchiare in mezzo a pellicole assai meno valide: non Wes Craven, esordiente col truce shock movie “L’Ultima Casa A Sinistra” all’alba dei Seventies e rimasto pur tra alti e bassi sempre rilevante agli occhi degli appassionati, presi alla sprovvista dalle ambientazioni assolate e rurali del classico “Le Colline Hanno Gli Occhi” e dell’invece troppo sottostimato “Benedizione Mortale”. Sono invece pieni anni Ottanta quando il Sogno Americano viene turbato dal guanto di Freddy Krueger, simbolo delle leggerezze della generazione hippie (droga, AIDS) ricadute sull’inconscio della gioventù reaganiana.
Nel mentre, a poca distanza dai patrii confini Haiti cova disturbanti tradizioni sulle quali si affaccia Bill Pullman ne “Il Serpente E L’Arcobaleno”. C’è già materiale a sufficienza per una carriera, ma il colpo di scena arriva quando Craven, nel vuoto siderale del 1996, rivoluziona le regole dello slasher dando il via con “Scream” alla saga più organica e consistente del settore; almeno fino alla sua morte nel 2015 ed alla riesumazione di Ghostface per due capitoli a dir poco oltraggiosi verso colui che, nell’incendiario incipit del capostipite, aveva fatto dire a Drew Barrymore che “i successivi Nightmare non valevano niente”. È un mondo difficile, ma la voce originale di Roger L. Jackson, le smorfie di Matthew Lillard e quei dieci minuti iniziali saranno in eterno cosa nostra.
6. John Carpenter (1948 -)
Da quella rivelatoria prima volta con “Halloween” ormai chissà quanti anni fa, milioni di altri estimatori sparsi per il globo terracqueo si sono chiesti cosa ci fosse di tanto magnetico in quelle riprese. Forse lo stile asciutto mutuato dal western classico? Forse le tranquille cittadine di provincia colte da un male che esse stesse hanno generato, ed ora non vogliono affrontare? Forse le storie sì piene d’azione e facili da seguire ma celanti a loro volta miriadi di interpretazioni sociali quando non religiose? Gli antieroi inclini all’auto- ed etero-distruzione? Le musiche memorabili che in due note raccontano tutta una trama? Non ci sono risposte esatte, ma solo la certezza che quando ci ritroveremo a tu per tu col coltellaccio brandito da Michael Myers, in fuga dalle nebbie di Hobb’s End a bordo di una Plymouth rosso fuoco e col compare al nostro fianco che inizia a trasformarsi in una cosa da un altro mondo, allora ci tornerà in mente un motivo; e magari non avrà nemmeno tutta questa importanza.
7. Stuart Gordon (1947 – 2020)
In missione per conto della mitica Empire / Full Moon di Charles Band e col sodale Brian Yuzna a dargli manforte come produttore e sceneggiatore, Stuart Gordon entra nel giro con la grazia di un hooligan polacco all’ottava Wojak quando, nella corsa all’eccesso dello splatter anni Ottanta si fa largo il suo “Re-Animator”. Tale esordio è una piccola gemma che porta Oltreoceano le sinossi lovecraftiane al gusto di frattaglie del nostro Lucio Fulci, aggiungendovi però tocchi di ironia pop tutta americana che danno a loro volta il via alla declinazione grottesca del gore.
Subito dopo cotanta sinfonia di gatti disintegrati e teste polverizzate, arrivano il seguito spirituale “From Beyond” con tanto di Barbara Crampton in tenuta sado-maso ed il tentativo con “Dolls” di mirare più in alto verso una fiaba nera a base di pupazzi assassini. Il giocattolo però inizia ad incepparsi anche a fronte alle ottime cose realizzate dall’amico Yuzna negli anni Novanta, e per raggiungere gli antichi splendori servirà tornare al solitario di Providence una volta sopraggiunti i Duemila; dietro l’ingannatorio nome “Dagon” si nasconde difatti un eccellente colpo di coda che riadatta in grande stile la pietra miliare letteraria “La Maschera Di Innsmouth”.
8. Rob Zombie (1965-)
Seppure gli anni Novanta non siano certo avari di pellicole horror statunitensi di alto livello, ciò che manca è l’imporsi di nuovi volti in grado di realizzare qualcosa di altrettanto dirompente rispetto agli incubi impressi su celluloide dai successori. A colmare finalmente tale vuoto, una volta giunto il Nuovo Millennio, è a sorpresa l’ex cantante degli White Zombie ed ora solista Rob Zombie, debuttante con quello che più che un film è un elettroshock al cinema di paura a stelle e strisce. Uscito tra mille rinvii per la piccola Lions Gate, “La Casa Dei Mille Corpi” coniuga l’insaziabile sete di violenza degli U.S.A. post-2001 allo zeitgeist passatista dei remake, e sfida dal basso la Platinum Dunes di Michael Bay ed il suo coevo rifacimento di “Non Aprite Quella Porta” schierando un plot analogo coadiuvato però da facce davvero credibili nella loro follia.
Per chi la cerca, l’originalità arriva nel successivo “La Casa Del Diavolo”, aperto e strizzante l’occhio all’epica western ma anche un po’ forzoso nel comparare la violenza della famiglia Firefly a quella propugnata dal potere costituito, ed esplode nel 2012 tra le spire del lisergico “Le Streghe Di Salem”. Un simile, coraggiosissimo delirio scenico e musicale era però condannato al flop, e il regista ne esce condannato all’inoffensiva maniera di “31” e “3 From Hell”. Resta per il sottoscritto il ricordo di “Le Streghe Di Salem” visto in una sala completamente vuota, con addosso una discreta fifa e la certezza di essere dalla parte giusta della settima arte.
9. Neil Marshall (1970-)
Hollywood è ancora in pieno encefalogramma piatto, e avrà bisogno di oltre un decennio per riproporre qualcosa di interessante. Tocca dunque ai britannici tenere alto il vessillo del terrore ad inizio Duemila, ed il nome che più di tutti spicca è quello del Neil Marshall autore di perfetti incroci tra orrore puro e sbandate action sapientemente dosate. “The Descent” è senza girarci troppo attorno il miglior esempio del genere dell’intera decade, un angosciante incubo sotterraneo popolato da mostri davvero terrificanti e personaggi femminili di rara profondità. Ciò non bastasse l’inglese di Newcastle si fa conoscere attraverso uno scoppiettante esordio intitolato “Dog Soldier”, capace di riportare la figura del lupo mannaro alle vette di Dante e Landis, ed prosegue col “Doomsday” a metà strada tra Romero e Jena Plissken.
Si guarda insomma ai tempi che furono allo scopo di trovare in essi qualcosa da attualizzare per il futuro: peccato solo che il futuro di Marshall gli riservi un calo di popolarità punteggiato da qualche regia televisiva e dal bell’episodio che chiude l’alterno “Tales Of Halloween, con il film-capestro “Hellboy” ad allontanarlo in via definitiva dalle grandi produzioni. Si contano due o tre lavori successivi arrivati in Italia su piattaforme a pagamento oppure del tutto inediti.
10. Robert Eggers (1983-)
Si finisce ai giorni nostri col campione di quello che molti definiscono elevated horror, neologismo evocante sudori freddi nel pubblico di settore più di quanto davvero necessario. Sgomberato il campo dalle chiacchiere intorno ad un autore comunque in grado di vendersi come pochi altri, quello che colpisce dei primi due grandiosi lungometraggi legati al genere orrorifico è la semplicità di messa in scena e narrazione, concentrata su piccole storie riguardanti microcosmi umani le cui vicende ciononostante si prestano a letture costantemente nuove.
Nessun sbrodolamento teorico alla maniera di certi colleghi contemporanei: qui ci si limita a filmare una famiglia in mezzo al bosco o due derelitti chiusi in un faro, e vedere che succede. In fondo sono pur sempre gusti personali, ma l’impressione è quella di un cineasta perseguitato da un alone forzato di intellettualità impostogli dagli spettatori più critici; gli altri aspettano con un misto di curiosità e sospetto la prossima rilettura del “Nosferatu”, nella speranza che Eggers, ovvero una delle voci più interessanti del circuito horror attuale, non si perda in operazioni capaci di dare ragione ai detrattori.