Se a Sherazade servirono mille e una storia per far innamorare il Re di Persia, alla Disney ne bastò una per conquistare il cuore del suo pubblico: la fiaba di Aladino e la lampada magica, tratta della raccolta indo-persiana de Le mille e una notte, ma qui reinterpretata e adattata per contenere tutti i fenomenali poteri cosmici di un Classico Disney degno del suo nome. E questo, il trentunesimo, ne prometteva di geniali. Non solo per le origini della storia, i personaggi e l’ambientazione suggestiva che fa loro da sfondo, ma anche perché geniali sono i nomi che l’hanno firmato. Quando venne proiettato per la prima volta era il 25 novembre 1992 e oggi, trascorsi 30 anni, Aladdin è ancora uno dei film Disney più amati e che più ci entusiasma.
Un film che ha dato vita a due sequel diretti (Il ritorno di Jafar e Aladdin e il re dei ladri), a un musical di Broadway e a un adattamento live-action molto apprezzato, anche se la maggior parte converrà sul fatto che nulla è meglio dell’originale. Dietro tanto successo si nasconde però una storia produttiva tutt’altro che semplice, fatta di ripensamenti, dolorose perdite e censure. Una storia che oggi vogliamo ripercorrere insieme, cercando di capire cosa rimane dopo tanto tempo di un film così amato, che ha portato uno «straccione» sulla cresta del mondo. Un mondo che dopo 30 anni è ancora suo.
Dallo stato grezzo a diamante raffinato
Fu Howard Ashman, sceneggiatore e paroliere delle canzoni insieme ad Alan Menken, a proporre un film basato sulla storia di Aladino. Una figura fondamentale per i Walt Disney Animation Studios, che accolsero con entusiasmo la proposta e iniziarono a lavorare al progetto riunendo personalità del calibro di Glen Keane, Mark Henn, Andreas Deja, Ted Elliott e Terry Rossio. Alla regia vennero chiamati John Musker e Ron Clements, che già negli anni precedenti avevano dato prova della loro abilità con Basil l’Investigatopo (1986) e La Sirenetta (1989). Sembrava un team inarrestabile, ma di quell’idea iniziale non molto superò il vaglio del produttore Jeffrey Katzenberg che, non contento dei primi risultati, spinse fortemente perché il film venisse rielaborato e costrinse l’intero team a preparare un nuovo storyboard con alcuni cambiamenti per lui fondamentali: la figura della madre di Aladdin (presente in dosi massicce nel primo progetto) doveva essere tagliata, il personaggio di Jago trasformato in un pennuto starnazzante e petulante, Jasmine doveva essere un personaggio femminile più ribelle e indipendente, Aladdin più grezzo e spaccone «come un giovane Harrison Ford».
Sembrò un’impresa impossibile, ma ci riuscirono. Tutti i cambiamenti vennero apportati in solo otto giorni e un nuovo animatore, Eric Goldberg, fu accolto nel team per lavorare alla figura del Genio. Da questo lavoro scaturì una sceneggiatura densa e compatta con dei personaggi che creano tra loro la giusta alchimia per un film davvero d’impatto. Del resto, Jeffrey Katzenberg avrà anche messo sotto pressione tutto il team di creativi, ma è proprio dalla pressione che nascono i diamanti.
L’umorismo Geniale
Non era la prima volta (e nemmeno l’ultima) che Musker e Clements decisero di porre l’accento sulla comicità dei loro personaggi, basti pensare all’arguto investigatopo Basil. In Aladdin però, malgrado tutti i personaggi si impegnino costantemente per offrire momenti genuinamente divertenti, il personaggio comico per eccellenza è soltanto uno: il Genio. Mai si era visto sullo schermo un personaggio tanto istrionico e travolgente, completamente fuori dagli schemi e capace di scandire il ritmo del film rendendo fluidissima ogni sequenza in cui appare. Il merito va ovviamente all’animatore Eric Goldberg, che ne modellò la figura sullo stile di Al Hirschfeld, noto caratterista statunitense, ma anche e soprattutto all’indimenticato Robin Williams che gli prestò il volto e la voce nella versione originale.
Di fatto la Disney gli cucì addosso il ruolo ben prima di proporglielo, quindi l’attore non poté che accettare portando in scena tutta la sua comicità. Nella versione italiana fu l’incredibile Gigi Proietti a doppiarlo, riuscendo a mantenere inalterata quella comicità nelle trasformazioni e nelle imitazioni (più di sessanta). Si potrebbe contestare il fatto che alcune sue gag e citazioni siano effettivamente troppo contemporanee, rischiando in futuro di rendere il film un po’ datato, anche se la prova dei trent’anni la si può dire superata abbastanza egregiamente. Comunque andrà più avanti, a compensare ci sarà sempre la resa grafica e le meraviglie visive di cui Goldberg è stato capace.
A mano a mano
Lo stile caratteristico di Al Hirschfeld non fu una prerogativa di Goldberg, ma venne ripreso anche dagli altri animatori per creare uno stile che fosse uniforme, caricaturale e avvolgente. Erano figure di spicco quelle che lavorarono ai bellissimi fondali dai colori vivaci e dal sapore orientale, ma ancor di più quelle che si dedicarono al resto dei personaggi. A dare ad Aladdin quell’aria tanto spavalda voluta da Katzenberg fu infatti la mano di Glene Keane, che decise di cimentarsi nel ruolo di protagonista maschile (dopo anni di animali e figure femminili come la splendida Ariel) prendendo a modello un giovanissimo Tom Cruise, allora all’apice del successo.
La principessa Jasmine venne supervisionata da Mark Henn, che in passato aveva già partecipato all’animazione di Belle e in futuro si sarebbe occupato di eroine come Mulan, Tiana, Anna ed Elsa. Il villain toccò invece ad Andreas Deja, il cui Jafar è solo il secondo della triade di cattivi a cui lavorò insieme a Gaston e Scar. Un antagonista assolutamente impeccabile, apparentemente austero ed elegante, ma che quando si lascia trasportare dalle emozioni rasenta facilmente il ridicolo regalandoci momenti irresistibilmente comici.
Il trionfo della CGI
Con la crescita della concorrenza, tra la minaccia di Don Bluth e della Pixar che pochi anni dopo sarebbe uscita al cinema con il rivoluzionario Toy Story (1995), le sperimentazioni tecnologiche divennero sempre più rilevanti anche in casa Disney. A tal riguardo non si può fare a meno di citare quello che per l’epoca rappresenta un traguardo tecnico assolutamente notevole, cioè il Tappeto volante. Per la prima volta fu possibile applicare su di esso un pattern di arabeschi capace di seguire i movimenti della superficie, piegandosi e arrotolandosi all’occorrenza. E questo è incredibile se si pensa che per Pinocchio (1940) fu necessario affidare a un artista specifico il compito di realizzare solo le decorazioni sui pantaloncini del burattino perché si muovessero in modo coerente per tutto il film.
L’utilizzo del computer non si limitò al solo tappeto, ma venne sfruttato anche per le spettacolari sequenze nella Caverna delle Meraviglie, mentre la brillantezza dei colori si deve al software di colorazione e composizione delle immagini CAPS introdotto poco prima con La Sirenetta. Insomma, si tratta di un comparto tecnico di serie A, esemplificativo di quanto la Disney fosse cresciuta in quegli ultimi anni. Le imperfezioni grafiche dei precedenti film diminuirono notevolmente e il tutto rese lo stile di Aladdin ancora più magnetico.
Le note d’oriente
Un aspetto memorabile di questo trentunesimo classico è ovviamente la musica, perché le sue canzoni sono ancora tra i brani Disney più ascoltati e apprezzati di sempre. Eppure, anche in questo ambito il film dovette fronteggiare problemi ben più tragici dell’estrema esigenza di Jeffrey Katzenberg, perché nel pieno dei lavori e ancor prima che il precedente La Bella e la Bestia arrivasse nelle sale, Howard Ashman morì di AIDS lasciando le ultime tracce della sua genialità nelle canzoni a cui aveva lavorato: Un amico come me, Il Principe Alì e Le notti d’oriente. Quest’ultima, per di più, fu anche oggetto di discussione perché ritenuta troppo offensiva per le popolazioni orientali e a partire dal 2004 venne censurata e modificata nelle versioni in VHS.
La figura di Ashman era fondamentale e quando morì, a metà della produzione, Alan Menken si trovò costretto a proseguire da solo. Per lui fu un brutto colpo, ma fortunatamente il bravissimo Tim Rice (tra gli autori di Jesus Christ Superstar, Evita, La Strada per El Dorado) entrò presto nel team e insieme a Menken riuscì a condurre la barca in porto nel migliore dei modi. Ashman, Menken e Rice vennero parimenti accreditati nel film, rendendo le musiche del trentunesimo Classico Disney il perfetto connubio dei loro tre immensi talenti, portando a casa ben due premi Oscar: quello per la Migliore colonna sonora e per la Miglior canzone (Il mondo è mio/A Whole New World).
Ciò che rimane trent’anni dopo
Virtuosismi tecnici a parte, come in ogni forma d’arte ciò che rimane è il cuore di una storia senza tempo. Una vecchia lampada impolverata che all’apparenza sembra di poco valore, ma che si rivelerà un oggetto in grado di cambiare la vita di chiunque. Uno “straccione” povero e disadattato, che riuscirà a innalzare sé stesso non con la magia o altre scorciatoie, ma con la purezza del suo animo. Fenomenali poteri cosmici che costringono un Genio in un minuscolo spazio vitale, diventando così simbolo non di potere, ma di schiavitù. Una principessa, ricca e davvero bellissima, infelice nella sua prigione dorata e nel suo ruolo che la fa sentire solo “un trofeo da vincere”, rappresentando un primo passo nell’evoluzione femminile nella storia della Disney.
Ecco, i film potranno anche invecchiare e noi spettatori con loro, ma ciò che a distanza di tempo ci rimane di Aladdin è una morale già esplorata, ma non per questo secondaria: l’importanza di essere sé stessi, di non lasciarsi ingannare dalle apparenze perché quello che conta è ciò che si ha dentro. Un buon motivo per riguardarlo ancora una volta riscoprendo quell’irrefrenabile voglia di essere noi stessi, perché solo così possiamo raggiungere la cresta del mondo con il nostro tappeto volante. Anche quando, dopo trent’anni, non ci sentiamo del tutto pronti per essere chiamati adulti.