American History X, film del 1998, liberamente ispirato alla storia vera di Frank Meeink, esponente di spicco del movimento neo-nazista americano che, dopo aver trascorso anni in prigione, sconfessò i suoi ideali razzisti; ora Meeink è un fiero sostenitore dell’uguaglianza e tiene conferenze sul tema in tutti gli Stati Uniti. Il film di Tony Kaye vede protagonisti Edward Norton ed Edward Furlong.
Frank Meeink, nato nel 1975 in un quartiere popolare di Philadelphia, passa un’infanzia complicata; subisce infatti violenze continue dal patrigno, mentre la madre non si occupa di lui. Cresciuto in un ambiente di estrazione irlandese, imperniato su rigidi valori cattolici, Frank non ha modo di confrontarsi in modo proficuo con altri modi di vivere, ma almeno nei suoi primi anni, non si serve dell’odio come motore: “Il mio patrigno me le dava di santa ragione, di continuo. Avrei preferito farmi investire da una macchina, così sarei finito all’ospedale, e non avrei dovuto tornare a casa a farmi menare; comunque, noi nel quartiere eravamo fieri di essere irlandesi; tutte le decisioni più importanti per la comunità si prendevano in Chiesa o al bar; Risse? Sì, certamente, ma eravamo tutti irlandesi, quindi non credevo che noi fossimo superiori ad altre culture. Per me esistevamo noi, e poi gli altri“.
La prospettiva di Frank cambia radicalmente negli anni della scuola media; Frank frequenta infatti un istituto a maggioranza afro americana, e dopo aver toccato con mano quanto più articolato fosse il mondo al di là del proprio quartiere, la confusione e il bisogno di appartenere hanno la meglio, e trasformano la sua personalità; “A scuola, cominciai a rendermi conto che gli “altri” erano molto più numerosi di “noi”, e nessuno era lì per aiutarmi. Iniziò tutto da lì, credo. D’estate, andavo sempre da mio cugini a Lancaster, facevo skateboarding, e andavo a sentire gruppi punk. Poi, nell’ultimo anno di scuola media, d’estate torno lì e scopro che mio cugino non fa più skateboard e non ascolta più punk; è diventato uno skinhead; all’epoca non sapevo cosa volesse dire questa parola, anche se l’avevo sentita. Se ci ripenso adesso, mi ricordo che loro, gente di provincia, erano molto curiosi di come fosse andare a scuola in città, a Philadelphia, e mi facevano domande a riguardo. Nessuno prima d’allora mi aveva mai chiesto cosa significasse per me andare a scuola. Loro volevano sapere com’era la mia vita. Ero il più giovane del gruppo, a 13 anni. Ricordo che andavamo nei club punk e la gente aveva paura di noi. Per me era meraviglioso, per la prima volta mi sentivo potente“.
In breve tempo, Frank diventa uno dei fiori all’occhiello della scena neonazista di Philadelphia, collezionando svariate apparizioni televisive come portavoce del movimento, e dando vita persino a un suo talk show sulla televisione via cavo, denominato The Reich: “Ho cominciato ad andare tanto in televisione, e a un certo punto, qualcuno ha detto che dovevo diventare io il volto del movimento, così ho dato vita al mio show. Alla gente piacevo perché avevo la faccia da pazzo, e portavo le svastiche sul collo. Una trasmissione oggi, una domani, e in breve mi faccio un nome. Poi mi trasferisco in Illinois e creo il mio show. Andavo in onda, dicevo quello che la gente voleva sentire, e così facevo proseliti per il movimento. Ero arrivato al punto di leggere non per il gusto di sapere cose, ma per rinforzare le mie argomentazioni folli“.
La vita dell’uomo che ha ispirato American History X cambia definitivamente il 24 dicembre del 1992; quando, insieme a un altro membro dell’organizzazione, sequestra il membro di una gang rivale, lo percuote a sangue, filmando l’aggressione. Arrestato e condannato, Frank, all’epoca diciassettenne, sconterà tre anni di carcere presso il Menard Correctional Center; durante la detenzione, Frank farà amicizia con molti detenuti afroamericani e questo, fra le altre cose, lo spingerà a rivalutare le sue posizioni: “C’era questo skinhead sinistrorso che conoscevo di vista, e non mi piaceva per niente, più che altro perché era di sinistra. Allora, la vigilia di Natale lo chiamiamo con una scusa, lo sequestriamo e lo pestiamo a sangue per ore, filmando tutto, per divertimento. E così finisco in prigione. Lì inizio a rendermi conto che forse devo analizzare le cose con più calma, ma è solo una volta uscito che capisco veramente“.
Meeink in particolare riferisce un episodio che è servito a fargli cambiare prospettiva; inizialmente cerca di reinserirsi immediatamente nel giro neonazista, ma lo scontro con la realtà che lui stesso aveva contribuito a creare è duro: “Vado a una festa… la sala è piena di gente che avevo reclutato io ai tempi… siamo lì che beviamo, a un certo punto uno si alza e mi dice che secondo lui gli italiani non sono bianchi… io sono mezzo italiano mezzo irlandese, allora glielo dico e quello si zittisce. Poi, dopo un po’, il discorso riprende, e io dico a questo tizio se pensa che anche mia figlia non sia bianca. Lui dice che no, non è bianca… io non ci vedo più e lo pesto a sangue davanti a tutti, poi me ne vado, per sempre. Mi ricordo che quella sera, mentre salivo sul treno per tornare a casa, ho alzato lo sguardo verso il cielo, e ho sussurrato: “Dio, forse abbiamo sbagliato tutto. Forse davvero siamo tutti uguali. Neri, latini, asiatici. Tutti uguali.”
Oggi Frank Meeink lavora per Life After Hate, un’associazione no profit che si occupa di aiutare chiunque voglia dissociarsi da gruppi che predicano odio e intolleranza.