Un solo tuffo. Basta così poco a James Cameron, dopo circa un’ora di film, a farci riprovare una meraviglia rinnovata che sul grande schermo non vedevamo da un po’.
Basta un solo tuffo per trasformare un film che, fino a quel momento, era un piacevole ritorno nel mondo di Pandora.
E non poteva essere altrimenti. Perché Avatar – La via dell’acqua, proprio con quell’immersione, svela la sua vera natura di film fluido, rinfrescante, travolgente e senza forma come l’acqua.
Imperfetto, anche, nella misura in cui il paragone si posa con il primo capitolo del 2009, decisamente più compatto dal punto di vista narrativo, più solido in quello che intendeva raccontare, ma anche più chiuso (ancora non si immaginavano i sequel, cosa che questo secondo capitolo deve invece tenere in considerazione con qualche storyline lasciata in sospeso) e tradizionale. Se eliminassimo la componente visiva e gli straordinari effetti visivi digitali, il primo Avatar aveva il sapore del vecchio cinema classico, stereotipato ma accomodante.
Avatar 2, invece, non corrisponde a foreste con alberi giganteschi le cui radici sono ben radicate e piantate nel terreno. Avatar – La via dell’acqua cambia elemento, e nel farlo si liquefa, diventando sfuggente. Un mare composto da gocce.
Raccontare (con) l’acqua
Quando la famiglia Sully entra a far parte della cultura del clan dei Metkayina, i Na’vi legati al mondo acquatico di Pandora, il film dimentica le ferree regole del blockbuster tradizionale, composto da una scrittura rigida e una narrazione ferma e algoritmica. Pure il film stesso si abbandona nelle acque dell’oceano, liberandosi della gravità, perdendo di vista un preciso orizzonte e lasciandosi cullare dalle onde. Quasi come non riuscisse a resistere a quel fascino sottomarino a cui anche gli spettatori e gli stessi protagonisti del film non possono difendersi.
Perché James Cameron ne La via dell’acqua finalmente riesce a mettere in scena l’acqua attraverso l’acqua, usandola come strumento di rottura per scardinare le regole del cinema classico. Si fa acqua.
Da quel momento il film prende la forma dei suoi protagonisti-contenitori, mentre provano nuove esperienze. Costretti a imparare le usanze dei Metkayina, Neteyam, Lo’ak, Kiri e Tuk parteciperanno a quella via dell’acqua che connette tutte le cose, il mare ai Na’vi, i protagonisti allo spettatore.
Che James Cameron sia innamorato e affascinato dall’acqua è cosa nota: sin dalle primissime sequenze di Piranha Paura, il suo esordio giustamente rinnegato dietro la macchina da presa (il regista riuscì a girare pochissimo prima di andarsene, il nome nei crediti è per puri motivi contrattuali), l’acqua acquisisce un elemento importantissimo nella filmografia del nostro. Portatrice di fascino e mistero in The Abyss, calma forza distruttrice in Titanic o portatrice di violenza attraverso il metallo liquido di Terminator 2 – Il giorno del giudizio, l’acqua nei film di Cameron è sempre stato l’elemento capace di unire e connettere la vita alla morte, la meraviglia al terrore (non a caso, quando Kiri si connetterà all’Albero delle Anime e vedrà Grace in sogno, sarà l’acqua a portare via la dottoressa; o ancora, sarà l’acqua il villain finale del film per i Sully, che rischiano l’annegamento, e nell’acqua avverrà un funerale e un’epifania).
Una storia che scorre
Quello che accade, però, in Avatar – La via dell’acqua è un vero e proprio cambiamento mutevole nell’economia narrativa del film. Da lì in poi Avatar 2 scorre attraverso l’emotività, lasciando che gli eventi si svolgano senza una vera e propria rigida continuità (i Na’vi che spariscono improvvisamente durante la battaglia finale, la sensazione di avere troppi personaggi con ulteriori storylines non sagacemente sviluppate, per fare due esempi). Persino il montaggio sembra seguire un flusso che rende meno compatto e più sfilacciato il film. La lunga sequenza dell’allenamento e della scoperta delle diverse culture è un esempio lampante: i figli di Jake, Jake stesso e Quaritch sono alle prese con insegnamenti, prove, sfide, fallimenti e trionfi, tra ilu, ikran e skimwing da padroneggiare. E ancora, Lo’ak che si sente un reietto e nuota con il tulkun Payakan, Jake che tenta un dialogo rassicurante con Kiri, le diatribe tra Metkayina e Omatikaya, sono tutti episodi che costituiscono un’ora centrale di film in cui l’invito è quello di lasciar perdere la trama, ma concentrarsi sul flusso.
Il montaggio stesso perde le proprie coordinate, causando tagli e stacchi che inizialmente possono lasciare interdetti, ma che corrispondono a un’idea precisa di narrazione, più distante dai blockbuster comunemente intesi e più vicina al cinema arthouse. D’altronde, se l’acqua è l’elemento simbolico di James Cameron, allora Avatar – La via dell’acqua è il suo film più autoriale. Lo è nei contenuti quanto nella forma, lasciva e libera, grazie anche all’HFR (High Frame Rate) che rende più fluida l’immagine.
L’acqua collega tutte le cose
Autocitazionista e omaggio al suo stesso cinema, capace di unire diverse generazioni di moviegoers, Avatar – La via dell’acqua corrisponde a un capitolo conclusivo nella carriera di Cameron e a un nuovo punto di partenza. Conclusivo, perché porta a compimento un percorso tecnologico e cinematografico che Cameron ha inseguito per anni; iniziale, perché a partire da questo capitolo numero 2, il prossimo decennio vedrà il regista impegnato a portare a compimento la sua saga del cuore, il progetto più ambito della sua carriera e franchise che – come abbiamo fin qui notato – racchiude tutta l’essenza della sua poetica.
Un paradosso, quindi, come la struttura stessa del film, ciclica, potenzialmente infinita, perché racchiude proprio quella via dell’acqua che Tsireya insegna a Lo’ak, che non ha inizio né fine.
Il film inizia con una nascita, quella di Neteyam, e finisce con il suo funerale, rappresentando i corpi nella medesima posizione fetale (“l’energia è solo in prestito”) che sottolinea il ciclo della vita. Ma inizia e finisce anche con le stesse inquadrature del primo Avatar: un volo tra le nuvole di Pandora e il primo piano di Jake che apre gli occhi.
Allo stesso tempo, Avatar – La via dell’acqua è il sequel del primo film (che potremmo anche considerare un prologo) e l’inizio di una saga con nuovi protagonisti e una mitologia sempre più espansa. Definirlo, quindi, appare sfuggente e quasi impalpabile. Ogni volta che si prova a definirlo ci si rende conto di come sia la definizione stessa a dare forma al film.
La via dell’acqua che il film racconta è la materia stessa di cui è composto. Un mare in cui immergersi, senza coordinate e senza paletti.
Fluido come tutto ciò che oggi possiamo considerare casa.