Si potrebbe rimanere poco colpiti dalla trama di Avatar – La via dell’acqua. Questo perché il nuovo film di James Cameron, sequel del film campione d’incassi del 2009, sembra voler puntare tutto sull’esperienza di visione, puntando interamente sugli effetti digitali, sullo schermo IMAX e sulla visione 3D e sacrificando il lato più puramente narrativo.
Ma è davvero così? Dopo più di tre ore di film, con gli occhi ancora meravigliati dall’impianto visivo, non possiamo fare a meno di porci questa domanda, mettendo in discussione il sentire comune che vorrebbe questo sequel carente dal punto di vista narrativo. Sin dalle prime reactions apparse sui social, Avatar 2 è stato subito additato come un film dalla trama troppo simile a quella del primo capitolo, stereotipata e prevedibile. Commenti che, dopo aver visto il film, riteniamo fuori luogo e che descrivono un film diverso da quello in sala.
Questo perché Avatar – La via dell’acqua si rappresenta con una storia tutt’altro che banale, semplice nella direzione che intraprende – d’altronde è un blockbuster costato quasi 400 milioni di dollari e deve incassare più di un miliardo, piacendo a un pubblico eterogeneo e vastissimo, per essere considerato un successo – ma denso di tematiche contemporanee che lo rendono stratificato. Il tutto “annegato” in un racconto per (splendide) immagini che possono involontariamente nascondere i potenti temi della storia.
Queste tematiche, che trovano naturale conclusione proprio nelle ultime scene del film, colpendo emotivamente lo spettatore, riguardano la nostra società e il nostro stare al mondo, risultando ricche di una sensibilità che raramente si trova in film di questa grande portata.
Racconto epico di grande scala, storia intima di una famiglia contemporanea: il significato del finale di Avatar – La via dell’acqua ci coinvolge tutti.
Andarsene da casa
Gli ultimi anni ci hanno messo a dura prova, per tutta una serie di motivi, con eventi che pensavamo di non poter mai vivere. Avevamo (e abbiamo) una sola certezza, un punto fermo come la stella polare: la nostra casa. Casa è il luogo in cui ci sentiamo al sicuro. Così è per i protagonisti di Avatar 2, Jake e Neytiri che, in mezzo al Popolo della Foresta su Pandora, hanno trovato pace per quattordici anni. Un lungo periodo che li ha visti diventare genitori, con tutta una serie di nuove responsabilità, ma con la sicurezza di trovarsi sempre a casa.
Con l’arrivo degli umani, intenti a colonizzare Pandora per trasformarla nella nuova Terra, questa pace si interrompe e nella foresta riprendono i violenti combattimenti che sembravano appartenenti a un periodo lasciato alle spalle. Il colonnello Quaritch, le cui memorie e personalità prima della morte, sono state inserite in un avatar ricombinato, intende vendicarsi di Jake e Neytiri, portando la guerra su un piano personale. I due protagonisti, per proteggere i loro figli, saranno costretti ad abbandonare il Popolo della Foresta e scappare.
È una prima rottura dello status quo, che distruggerà poco a poco le certezze di Jake, così sicuro di poter avere tutto sotto controllo (la mentalità da marine non l’ha mai abbandonato), ma anche così inesperto nell’essere un padre (a questo proposito, guardate come reagisce ogni volta che deve parlare coi figli anziché ordinar loro di fare qualcosa, guardate le sue indecisioni e il suo sentirsi inadatto). Quando i Sully prendono la decisione di lasciare il Popolo abbandonano la loro casa, il loro punto fermo, la loro certezza. È la prima frattura in seno a questa famiglia, il primo varco nella loro fortezza.
Il lago e il mare
“Questa famiglia è la nostra fortezza“, ma anche “I Sully restano uniti“: sono i due motti che Jake ripete continuamente (a sé stesso, alla famiglia) nella speranza di poter mantenere sotto controllo gli eventi che lo stanno indebolendo. Con la necessaria intenzione di proteggere i membri della propria famiglia, Jake chiude i Sully in una fortezza impenetrabile. Una barriera che se non viene scalfita dal mondo esterno, impedisce anche ai genitori di aprirsi al mondo.
Al contrario dei figli, che imparano velocemente la cultura dei Metkayina (nello stesso modo in cui Jake ha imparato, nel film precedente, quella degli Omaticaya) con la curiosità e la facilità delle nuove generazioni, Jake e Neytiri si chiudono in loro stessi. L’interesse di Jake sarà solo nel saper cavalcare l’animale dei guerrieri, lo Skimwing, non interessandosi invece alla Via dell’Acqua, alla respirazione subacquea e agli usi e i costumi della cultura del clan marino. Neytiri, addirittura, si dimostrerà totalmente disinteressata, tanto da continuare a cavalcare l’ikran durante le fasi della battaglia finale.
È uno scontro quasi ideologico, con i Sully che non si sentono mai veramente a casa, chiusi come un lago in una cultura che invece abbraccia l’infinita vastità del mare. Gli unici tre figli che, inizialmente a fatica, poi in maniera sempre più naturale, si inseriscono all’interno degli usi e costumi dei Metkayina sono Lo’ak, il secondogenito, Kiri, la figlia adottiva nata dalla dottoressa Grace, e Tuk, la più giovane ed entusiasta.
Non sorprende che il primogenito, cullato dal padre che lo vede come un figlio prediletto a scapito del secondo, venga in qualche modo dimenticato lungo il corso del film e che, durante il suo ultimo respiro, provi nostalgia di casa. Neteyam, il fratello maggiore, quello che più di tutti è stato legato al padre, è già troppo in là con l’età per entrare completamente in quel flusso culturale. Rimane sospeso in un limbo, a metà strada tra la chiusura e l’apertura.
(Ri)Vedersi tra genitori e figli
“Io ti vedo“: da sempre la frase simbolo di Avatar, frase che punta l’accento sullo sguardo e che è dimostrazione di amore e comprensione. È la frase che nel finale Jake pronuncia rivolto al secondogenito Lo’ak, che finalmente è riuscito a dimostragli il proprio valore, salvandogli la vita. Un salvataggio che riesce proprio attraverso gli insegnamenti della cultura dei Metkayina (Lo’ak attraverso l’insegnamento della respirazione e della Via dell’Acqua; Kiri con l’aiuto delle creature marine) e che scavalca quelle barriere altissime che la famiglia Sully si era autoimposta. Soprattutto, è un gesto finale che costruisce una rinnovata empatia tra padri e figli, i primi appartenenti a un mondo tutto da scoprire e che fanno fatica a conoscere, i secondi che quel mondo riescono ad abbracciarlo con maggiore facilità.
Ed è qui che la scrittura sopraffina di James Cameron e soci rivela il vero significato di Avatar – La via dell’acqua. Nel raccontare, attraverso un’epica fantasy, la contemporaneità e lo scontro tra vecchie e nuove generazioni a cui questo film si rivolge. Perché reciprocamente gli spettatori di diversa età troveranno nel rapporto tra Jake e Lo’ak la visione di un gesto d’amore. I padri vedranno finalmente i figli per quello che sono, forse davvero migliori di loro e in grado di vivere in una nuova società; i figli comprenderanno i padri, perdonando la loro difficoltà ad accettare le novità. Due mondi pronti a vedersi senza barriere e fortezze, alla stregua degli Omaticaya con i Metkayina. Un significato che coinvolge anche noi spettatori, che commossi dalle vicende su Pandora non possiamo far altro che ripensare alla nostra famiglia e a chi ci circonda. Rimaniamo una fortezza o abbracciamo lo scorrere delle acque?