C’è un bellissimo discorso in Babylon che coinvolge Brad Pitt e Jean Smart. I due interpretano i ruoli di Jack Conrad e Elinor St. John, divo del cinema muto e giornalista scandalistica della Hollywood classica, e si ritrovano impegnati in un dialogo sull’eternità e i suoi fantasmi.
Trattando del passaggio dal cinema muto a quello parlato, dalle didascalie che dettavano parole e narrazioni dei personaggi al vero e proprio sonoro, Babylon racconta il momento di trasformazione di un’arte e la sua industria che non sarebbero più state le stesse, pur rimanendo fissamente incastonate nel “per sempre”.
Jack Conrad, l’attore del passato che sogna il futuro
Attore con la sua solida carriera alle spalle, interprete affascinante e amato dai rotocalchi, il personaggio di Brad Pitt è il primo fautore del cambiamento, è la star che vuole osare, è l’interprete che desidera dare sempre di più al pubblico.
È un innovatore senza idee, un fiducioso senza inventiva, che sa però benissimo che cosa fare quando vede accendersi la lucina della telecamera, come quando da ubriaco su di una collina riesce a ricomporsi subito per non perdere la luce migliore e portare a casa la scena.
Elinor St. John, la voce dietro ai set
La controparte Elinor è invece una figura ai margini. È colei che guarda il cinema da lontano, dall’alto di una pianura o direttamente al buio del grande schermo, riportando degli scandali di cui la Hollywood del finire degli anni Venti era piena e alimentando la fantasia di una macchina dei sogni che era splendente tanto davanti alla camera, quanto nel suo dietro le quinte.
Un personaggio che osserva, al cui sguardo non può sfuggire nulla e alla cui penna affida le sue considerazioni e i pensieri. È perciò lei ad annunciare con la sua intervista la fine della carriera di Jack Conrad, a decretare una morte artistica che è sinonimo del mutamento auspicato dall’attore, ma di cui l’uomo non può far parte.
Tutti i destini di Babylon
È quello che accade al protagonista di Brad Pitt, ma che si reitera per altre tre volte nella pellicola di Damien Chazelle. Sono i mille take della “wild child” di Margot Robbie che la rendono stratosferica nel cinema muto, ma la cui temperanza, il portamento e anche un po’ la voce non le permettono più di bucare lo schermo con l’arrivo del cinema parlato come sapeva fare una volta.
È il talento del musicista Sidney che, sempre onestamente, è riuscito a scalare la vetta del successo facendosi notare per la propria bravura e che, proprio per preservarla così come la propria dignità, decide di abbandonare lo spettacolo. È l’ambizione legata a doppio giro all’amore di Manny per i film e quel suo tipico passaggio che il protagonista intraprende da garzone ad assistente e da assistente a dirigente di studio, in un ambiente in cui ci vuole un attimo a essere catapultarti nuovamente da dove si è venuti, tornando subito ad essere nessuno.
Babylon e le teorie del cinema
Quattro percorsi in Babylon che tracciano un fato comune nella peculiarità di ogni singola storia, evidenziando il divenire in continuo tumulto di un’arte che, soprattutto in quell’epoca, era ancora davvero giovane e le cui porte dell’innovazione si spalancavano ogni giorno. Ma per ogni nuovo spiraglio si deve chiudere un vecchio portone.
Tenendo fuori i protagonisti, la storia di Chazelle diventa però anche teorizzazione di studi sul cinema che ne hanno contribuito l’analisi sulla psicanalisi, della profondità sull’intimità e della percezione umana. Quella che ci permette, in qualsiasi tempo, di guardare ogni volta con gli stessi occhi agli attori sul grande schermo, incastonandoli in un paradiso inattaccabile in cui potranno sempre restare.
Sulla morte e sull’arte
È qui che i percorsi dei protagonisti assumono un valore che la presunta e momentanea vacuità delle loro carriere aveva fatto temere o presagire, con cui entrerà in contatto il Jack di Brad Pitt mettendolo di fronte a una rivelazione che vale sia per il personaggio, quanto per lo spettatore che ascolta le parole della giornalista Elinor. Un discorso che il regista incornicia concedendo un istante di silenzio che spezza tutto il tempo assordante, roboante, musicale di Babylon. Forse uno dei pochi momenti, se non l’unico in assoluto, in cui sono solo le parole a riempire lo spazio.
Quello stesso luogo abitato dai fantasmi di cui parla il personaggio di Smart e di cui Jack Conrad sta per entrare a far parte. Un insegnamento che arriva dai banchi di scuola del cinema e trasmigra nelle mani di Chazelle. Lo scoprire la settima arte quale bacino per delle pedine transitorie, il cui passaggio però segnerà il cinema ancora per molto. Per tutti i suoi anni a venire.
Qualcosa più grande di tutti
Credendo di star recuperando un briciolo di notorietà e considerazione, il personaggio di Brad Pitt si ritrova invece a conversare sulla sua morte, quella lavorativa, ma anche quella futura e reale, la quale sarà niente in confronto a ciò che ha saputo plasmare con il suo mestiere e che rimarrà fissato su di una pellicola per il resto dei giorni.
Un attore che continuerà a venir guardato, ammirato, osannato. E non importa se ormai la sua carriera è finita, perché ha fatto davvero parte di qualcosa di grande. “Più grande di te”. Più grande di tutti.
I film come parentesi di vita
Arrivando come un’epifania, che è però sempre stata lì proposta ai nostri occhi dallo schermo, Elinor St. John declama il valore eterno del cinema e di coloro che lo hanno abitato, lo abitano e che lo abiteranno per sempre. La conclusione di una carriera che ha significato l’esserci stato, essere stato uno degli ingranaggi. Aver trasformato la propria pelle, le proprie ossa, il proprio sangue in celluloide permanente rispetto alle carni umane, le quali sono finite e mortali per definizione.
Quando infatti guardiamo al grande schermo, scopriamo che spesso è un’arte abitata da morti, le cui ombre catturate dal passaggio della macchina da presa ne hanno racchiuso il ricordo, lo hanno rielaborato e lo hanno reso sequenze pronte a scorrere su una superficie bianca, animata dal loro ritorno. Sono i fantasmi di Manny che diventano Cantando sotto la pioggia, lui che osservando il film rivede costruita quella parentesi della sua vita.
La memoria del cinema in Babylon
Se Jack Conrad è un attore che, nel presente, non ha più notorietà, per il pubblico del domani potrà continuare a essere una stella senza tempo, un volto a cui aspirare, il simbolo di una Hollywood che c’è stata e di cui può diventare uno dei corpi rappresentativi. Elinor St. John stila la stoffa della memoria che è in grado di tessere l’arte cinematografica, ricamandoci sopra quei divi che ne fanno da contrappunto e che diventano memoria a propria volta.
Un assorbire completamente l’essenza di chi ha concesso al cinema di renderlo eterno, per esserlo quindi a propria volta entrambi. Attori e immagini. Immagini e attori. Un’arte in cui a muoversi dentro (sul grande schermo) sono gli spiriti. Gli unici a cui è concesso di vagare in eterno, ogni volta che si accenderà per loro e per il pubblico la luce di un proiettore.