Il Festival del Cinema di Porretta si prepara ad accogliere il regista Cristian Mungiu, ospite nel pomeriggio di sabato 2 dicembre con il suo primo lungometraggio, Occident (2002), nella sezione speciale “La prima volta di…”. Presentato alla Quainzaine des Realisateurs al Festival di Cannes 2002, il film vede protagonisti Alexandru Papadopol e Anca-Ioana Androne. In occasione di questo evento, abbiamo avuto l’opportunità di intervistare il regista di celebri film quali 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007), Palma d’oro al Festival di Cannes, e Animali Selvatici (2022), riflettendo a 21 anni di distanza sulla sua opera prima, una commedia amara sul seducente mito dell’Ovest, che risiede tra i rumeni più giovani.
Il Festival del Cinema di Porretta ha deciso di rivisitare il tuo film d’esordio, Occident, nella sezione speciale La prima volta di… Vorrei iniziare questa intervista con una domanda sulla sua produzione, chiedendoti se è stato difficile raccogliere fondi per questo lungometraggio e come è stato il tuo primo approccio al cinema indipendente.
È stato difficile perché eravamo molto inesperti, soprattutto in termini di produzione, non di regia. Abbiamo ottenuto i finanziamenti statali per il cinema, che hanno coperto circa il 60% del costo del film, e non avevamo idea di come ottenere il resto. Alla fine abbiamo iniziato a girare solo con quella cifra e, ovviamente, abbiamo finito i soldi prima della fine delle riprese. Ci ho messo i soldi di tasca mia e ho finito le riprese, ma poi è iniziata la lotta per finire la post-produzione. Abbiamo beneficiato dell’aiuto del fondo Hubert Balls per finire il montaggio e di conseguenza avremmo dovuto presentare il film a Rotterdam, ma non siamo riusciti a trovare i fondi per il missaggio del suono e il taglio del negativo. Tuttavia, essere presenti nel catalogo del festival di Rotterdam è stato fondamentale perché Marie Pierre Maciat, che in quel periodo stava selezionando i titoli per la Quainzaine des Realisateurs e che a quanto pare mi aveva dato alcuni premi nei festival per i miei cortometraggi, vide il mio nome ed espresse il suo rammarico per non avermi fatto debuttare a Cannes. Quelli di Rotterdam furono molto gentili e mi dissero che il film era comunque selezionabile per Cannes, dato che a Rotterdam ero solo segnato in catalogo. Una lettera che esprimeva un interesse informale da parte della Quainzaine è stata sufficiente per negoziare con il nostro fondo cinematografico per ottenere un po’ più di soldi per finire il film – a condizione che il film appartenesse al Film Fund. Lo abbiamo fatto e Occident è stato presentato in anteprima alla Quainzaine des realisateurs e in seguito in oltre 60 festival.
Recentemente, sempre più film indipendenti firmati da giovani registi stanno dominando la scena cinematografica. L’esempio massimo di questa tendenza è l’ultimo film vincitore dell’Oscar 2023, Everything Everywhere All At Once dello studio indipendente A24, un film visionario che sprigiona una creatività senza compromessi. Quanto pensi che lavorare con un budget limitato possa incoraggiare la creatività dell’artista, permettendogli di sperimentare con stile e contenuti per dare forma alla propria visione?
Credo che il termine “indipendente” abbia connotazioni molto diverse in Europa e negli Stati Uniti. Rispetto ad A24 ed EEAAO, la maggior parte dei film europei sono indipendenti e a basso budget. Sì, c’è sempre il rischio che la situazione peggiori ulteriormente perché i politici e chi prende decisioni importanti guardano soprattutto serie americane sulle piattaforme o direttamente film piratati su youtube, quindi non capiscono la necessità della geo-localizzazione, per esempio. A dicembre, a Bruxelles, si voterà su questo tema – e l’abolizione della geolocalizzazione sarebbe un colpo decisivo per il finanziamento di piccoli film indipendenti, in lingue diverse dall’inglese. Purtroppo, internet e la pirateria, lo spostamento dei cinema nei centri commerciali, le moteplici forme di streaming e la forza dell’industria cinematografica americana hanno praticamente soffocato la diversità e i diversi modi di raccontare le storie.
Con Occident hai adottato un tono scanzonato, un approccio non lineare e libero, divertendoti anche con i tuoi personaggi: qualcosa di inedito rispetto al resto della tua filmografia e che, al contempo, riesce perfettamente a trasmettere la durezza dell’esistenza in un paese periferico e post-comunista dell’Europa orientale. Puoi spiegare questa scelta?
Per il tuo primo film, nulla è “inedito”. Sei libero come non lo sarai mai più. Volevo capire se potevo usare l’umorismo per raccontare una storia in qualche modo triste, sperando che gli spettatori lo apprezzassero, e così è stato. Una volta raggiunto questo obiettivo, mi sono chiesto se potevo usare storie di vita quotidiana di persone normali e una forma narrativa semplice per realizzare un thriller sulla sensazione di vivere sotto la pressione del comunismo e tutte le sue implicazioni.
Potremmo dire che Occident si differenzia dagli altri tuoi film, dove la suspense e l’identificazione dei personaggi sono influenzate dalla realizzazione o dal fallimento della promessa “occidentale”. In Occident, infatti, l’Occidente appare solo come uno spostamento di location: non c’è alcuna illusione da parte dei personaggi che il raggiungimento di questo obiettivo possa rendere effettivamente la loro vita migliore, o la peggiori. Potresti approfondire questo punto?
Quell’Occidente che i disperati orientali sognavano è un miraggio. Le persone hanno questa inclinazione a credere che le cose di cui sanno poco siano migliori di quelle di cui sanno molto. Ma siamo stati molto ingenui quando il comunismo è crollato: pensavamo che la libertà sarebbe arrivata automaticamente con la ricchezza e che la situazione dopo il comunismo sarebbe cambiata in meglio da un giorno all’altro. Quando questo non è accaduto, la gente si è rifugiata nel sogno, a lungo proibito, di emigrare in Occidente, visto come la terra di tutte le possibilità, come è stata l’America per centinaia di anni. È un’illusione che non ha molto a che fare con la razionalità e la realtà. È legata al bisogno umano di immaginare che il “paradiso” debba esistere – altrimenti saremmo troppo disperati.
Quanto è cruciale l’integrazione del mondo animale nei tuoi film? Serve come riflesso delle dinamiche sociali o rappresenta un costrutto idealizzato dal tuo punto di vista?
Credo che facciamo parte del mondo animale. Non ci piace ammettere di essere animali sofisticati, ma pur sempre animali, e il nostro lato animalesco è un fattore determinante per molte delle nostre decisioni. L’uso degli animali nei miei film non ha sempre la stessa funzione. Nella maggior parte dei miei progetti mi piace avere animali che non “recitano”. Sono al di fuori delle convenzioni del cinema di finzione – e quindi portano una sorta di realismo, di mancanza di consapevolezza della componente fittizia. Tuttavia, in RMN, ad esempio, l’uso degli animali è un po’ più complesso, essendo questo un film sul nostro lato animalesco, per cominciare, sugli istinti e sulla violenza, sull’appartenenza al branco e sulla necessità di avere una tribù con cui identificarsi.
Hai affermato che, come registi, si è prima osservatori e poi narratori. In che modo l’osservazione diventa nutrimento per la narrazione nel tuo processo creativo? Come fa l’occhio del regista a trasferirsi a un pubblico più ampio, assumendo anche un significato sociale?
Cerco di osservare come le persone reagiscono in determinate situazioni quando sono chiamate a fare delle scelte e cerco di selezionare con cura quelle situazioni in modo da non deteriorare l’essenza della realtà, che non è essenzializzata ma consente una ragionevole dose di approssimazione. Poi, sì, devo strutturare le informazioni in modo che abbiano un effetto di causalità – e in più cerco di cogliere il ritmo e la prospettiva migliori per far sì che le persone “sentano” ciò che i personaggi vivono, non solo siano informate. La sfida consiste nell’utilizzare situazioni quotidiane sperando che generino un senso più ampio, una prospettiva più profonda su aspetti della vita, e che allo stesso tempo siano divertenti da guardare e credibili dal punto di vista narrativo ed emotivo. Naturalmente, a volte questo processo riesce meglio di altre volte.
Passando al concetto di perdono: lo consideri una forza da coltivare o cerchi di affrontare e condannare la riluttanza ad abbracciare il perdono?
Non credo che le persone cambino troppo e troppo spesso. Quando lo fanno, è un processo lento. Pertanto, non credo in quel tipo di cinema in cui i personaggi sono significativamente diversi alla fine rispetto all’inizio. Forse la letteratura è un mezzo migliore per raccontare queste storie. Detto questo, mi piacerebbe che le persone fossero più capaci di essere empatiche, compassionevoli, razionali e altruiste – ma si può fare ben poco per influenzare questo desiderio – e il cinema non gioca un ruolo statisticamente rilevante in questo cambiamento. Tuttavia, a volte ogni individuo è importante.
Lo spettro dei tuoi film si estende da un concetto e una struttura solidi a sfumature intricate che continuano a svelarsi dopo ripetute visioni. In che misura ti affida alla ragionevolezza dello spettatore e quali obiettivi specifici intendi raggiungere con le tue produzioni?
Lo “spettatore” è sempre un concetto astratto per ogni regista che pensa a lui o a lei. Sì, spero che gli spettatori riescano a fare due più due, ma tendono sempre più a perdere l’abitudine di riflettere su ciò che vedono. Si sono abituati a sentirsi dire la conclusione, non i fatti. Rispetto ancora la loro libertà di giudizio, ma spesso non vogliono avere questa libertà – la percepiscono come un peso. Sono deluso dal fatto che sempre meno persone siano interessate a un cinema significativo, ma non posso farci molto. Il mio obiettivo come regista è quello di fare film in cui credo, sperando che possano vivere per un po’ prima di diventare irrilevanti e che durante questo periodo qualche spettatore possa scoprire qualcosa sulla vita in generale e sulla propria vita in particolare guardandoli.
Con il tuo primo lungometraggio, ti sei inserito a gamba tesa nel mondo dei festival cinematografici, che si sta rivelando un utile trampolino per i giovani artisti e sta diventando sempre più inclusivo. Quanto ritieni fondamentale che i festival facciano sentire la voce dei più giovani?
I festival sono diventati una sorta di alternativa alla distribuzione per molti film, purtroppo. La maggior parte dei film indipendenti sottotitolati non ha una vita al di fuori delle proiezioni nei festival. Il dilemma è che le persone che selezionano i film per i festival hanno gusti cinematografici molto diversi da quelli degli spettatori abituali – ognuno accusa l’altro di essere di un altro pianeta. Tuttavia, sarebbe opportuno trovare un terreno comune, perché ormai il mondo dei frequentatori dei multiplex e quello dei frequentatori dei festival sono troppo distanti.
Negli ultimi anni ho iniziato a produrre sempre di più, affidando il lavoro a sempre più giovani registi. Inoltre, ho avviato questo laboratorio di sviluppo in cui chiunque può presentare una sceneggiatura (Write a Screenplay For – dettagli su filmedefestival.ro) – quindi investo molto tempo ed energia nel tentativo di portare sullo schermo giovani voci fresche.