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Home » Film » Hurricane – Il grido dell’innocenza, la storia vera che ha ispirato il film

Hurricane – Il grido dell’innocenza, la storia vera che ha ispirato il film

Hurricane - il grido dell'innocenza è tratto dalla storia vera del pugile Rubin Carter. Ecco chi era.
Simone FrigerioDi Simone Frigerio29 Agosto 2023
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hurricane rubin carter
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Hurricane- Il grido dell’innocenza, film biografico del 1999, racconta la storia vera dell’incarcerazione di Rubin Carter, pugile afroamericano, soprannominato appunto Hurricane, “uragano”; Carter, indagato e successivamente condannato per un triplice omicidio avvenuto nel 1966, uscirà definitivamente di prigione solo nel 1985, dopo diversi procedimenti giudiziari e svariati appelli. Il suo caso, preso ad esempio di tutti quelli errori giudiziari in cui erano soliti incorrere i membri della comunità afroamericana, trovò molto spazio nel dibattito pubblico dell’epoca; fra gli altri, il cantautore Bob Dylan scrisse, nel 1975, la canzone Hurricane per protestare contro l’ingiusto trattamento riservato a Carter.

Nell’estate del 1966, Rubin Carter è pugile professionista da ormai cinque anni; ma dopo qualche promettente incontro nei primi anni, nel 1964 la sconfitta ai punti contro Joey Giardello nel match valevole per il titolo mondiale dei pesi medi, ha dato una forte frenata alla sua carriera; Carter, dallo stile di combattimento aggressivo, da cui il soprannome, aveva intrapreso la strada del pugilato professionistico dopo un breve passaggio in riformatorio alla fine degli anni ’50.
Nella notte del 17 giugno 1966, Carter e l’amico John Artis stanno tornando a casa, dopo una serata passata al Nite Spot, ma vengono fermati dalla polizia, che li arresta come sospettati per l’omicidio di tre uomini avvenuto quella sera stessa al Lafayette Bar & Grill di Paterson, New Jersey; due testimoni oculari, Alfred Bello e Patty Valentine, hanno riferito di aver visto i colpevoli fuggire su un’auto bianca, simile a quella su cui si trovavano Carter e Artis. Le loro dichiarazioni, tuttavia, non convincono gli inquirenti, che rilasciano Carter e Artis per mancanza di prove, la stessa conclusione cui arriverà nelle settimane successive, il gran giurì, ovvero l’organo giudiziario preposto a deliberare se sussistano o meno le condizioni per imbastire un procedimento penale nei confronti di un dato individuo; oltretutto, i due sospettati avevano superato brillantemente il test del poligrafo.

Dopo qualche mese, però, Bello, che si trovava sul luogo del delitto per preparare una rapina e che, subito dopo il massacro, aveva svuotato le casse del locale, approfittando della confusione, teme di essere scoperto e decide di identificare Artis come uno degli aggressori, in modo da distogliere le attenzioni da se stesso; simultaneamente, Arthur Bradley, complice di Bello nella tentata rapina, identifica Carter come il secondo aggressore. Un rapporto di polizia risalente a cinque giorni dopo il rilascio di Artis e Carter, rivela inoltre la presenza di pallottole compatibili con quelle trovate sulla scena del delitto; indagini successive stabiliranno che quei proiettili non appartenevano alle armi usaate durante l’eccidio. Nonostante queste e altre incongruenze, Carter e Artis saranno condannati all’ergastolo in primo grado.

rubin carter

Nel 1974, però, Bello e Bradley ritrattano la precedente testimonianza; il giudice Larner garantisce quindi a Carter e Artis un nuovo processo, basandosi su un cavillo procedurale; la procura, infatti, all’epoca del primo dibattimento, aveva stretto accordi con Bello e Bradley senza informarne adeguatamente il collegio di difesa; prima dell’inizio del nuovo processo, il procuratore Humphreys sottopone Bello a due diversi test poligrafici, condotti da due diversi esperti; entrambi avranno esito positivo; nel corso del secondo test, però, l’esaminatore Harrelson riporta una contraddizione nelle dichiarazioni di Bello; nella prima testimonianza del 1967, infatti, l’uomo aveva dichiarato di trovarsi in strada davanti al locale, al momento degli spari, mentre le risposte al test indicavano che Bello si trovasse all’interno del bar, quando gli omicidi erano stati commessi.

Nella sua relazione scritta, Harrelson dichiarò di ritenere valida la testimonianza del 1967, e Bello, una volta sul banco dei testimoni, ribadirà nella sostanza la sua prima versione dei fatti, quella precedente alla ritrattazione. Nonostante gli sforzi compiuti dalla difesa per screditare le testimonianze di Valentine e di Bradley, il quale peraltro aveva deciso di non presentarsi al nuovo processo, Artis e Carter vengono condannati una seconda volta all’ergastolo. Artis, dopo aver rinunciato all’appello, verrà rilasciato sulla parola nel 1981, mentre Carter decide di tentare il tutto per tutto.

Nel 1985, infatti, invia alla corte federale del New Jersey una richiesta di habeas corpus, ovvero una richiesta di udienza volta a determinare la liceità di una detenzione secondo i parametri di legge. Il giudice Haddon Sarokin si sarebbe espresso con queste parole, garantendo a Carter l’immediata liberazione dalla prigionia: “La procura ha condotto il dibattimento secondo presupposti basati su considerazioni razziali, lasciando da parte la ragione, e ha optato per il celamento delle prove anziché per il loro disvelamento“. Rubin Carter torna a essere un uomo libero nel novembre del 1985. Doveroso notare, quindi, come, a differenza di quanto mostrato nel film, Carter non sia mai stato tecnicamente dichiarato innocente agli occhi della legge. Ritiratosi a vita privata in Canada, Carter muore per un cancro alla prostata nel 2014.

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