Judas and The Black Messiah racconta la storia vera di Fred Hampton, carismatico leader delle Pantere Nere di Chicago, ucciso in un raid del FBI il 4 dicembre del 1969, e in parallelo mostra l’operato di William O’Neal, un ladro d’auto divenuto informatore per i federali e infiltratosi proprio nella sezione di Chicago del partito. O’Neal, la cui attività di informatore sarebbe continuata per tutti gli anni settanta, fino allo scioglimento della sezione, è morto suicida nel 1990, pochi mesi dopo aver rilasciato una lunga intervista – confessione per il documentario Eyes On The Prize.
Fred Hampton, nato a Chicago nel 1948, muove i primi passi nella sezione locale del NAACP, un’organizzazione che si occupa del miglioramento della qualità di vita degli afroamericani, occupandosi delle attività legate ai giovani. Dopo aver conosciuto Bobby Rush, verso la fine del 1968 Hampton entra a far parte della nascente sezione locale del Partito delle Pantere Nere, e in breve tempo, le sue non comuni abilità oratorie e il suo innato carisma lo aiutano a scalare i ranghi, e a dare credibilità alla nascente organizzazione. Ricorda l’attivista Elaine Brown: “Nel freddo gelido di Chicago, alle 6.30 del mattino, c’erano 2-300 persone che aspettavano solo Fred. Persone che non facevano nulla nella vita, e non sapevano cosa fosse la disciplina, aspettavano, al freddo, che Fred gli desse dei compiti li motivasse. Lui diceva sempre che la sua unica droga era la gente, e la gente si faceva trascinare da lui. Era impossibile il contrario“.
Dopo aver evitato lo scontro armato con alcune tra le più potenti gang della città, Hampton si dedica al miglioramento della sua comunità, dando vita, nella primavera del 1969, alla Rainbow Coalition, una coalizione a scopo non violento formata da organizzazioni etniche e territoriali, come gli Young Lords portoricani e gli Young Patriots, giovani bianchi del sud con ideali di sinistra. Inoltre, prendendo spunto da un’attività svolta nel suo quartiere d’origine anni prima, Hampton istituisce un programma di colazioni gratuite per i bambini della zona, inaugurato il primo aprile del 1969. A pieno regime, il Free Breakfast Program forniva cibo per una media di 500 bambini al giorno: “La cosa bella del nostro programma era che per aderire non bisognava compilare moduli… tante volte la gente si scoraggiava con tutta la burocrazia; noi alla fine ce la cavavamo grazie alle donazioni, di denaro o materiale. E non dovevi essere uno di noi per donare… chiunque aveva qualcosa da dare, e noi accettavamo tutto“.
Qualche mese prima Hampton era stato denunciato per furto, dopo aver sottratto 71 dollari di gelato, offerto a dei bambini. Per questo, l’uomo, nel maggio 1969 verrà condannato a una pena compresa tra i due e i cinque anni. Dopo pochi mesi, però, l’appello presentato dalla difesa viene accolto, e Hampton è di nuovo libero.
Intanto, nell’autunno del 1968, J. Edgar Hoover, capo del FBI, aveva istituito la Racial Matters Squad, una squadra d’indagine speciale incaricata di monitorare le attività delle Pantere Nere, considerate “la più grande minaccia per la democrazia” secondo le parole dello stesso Hoover. Ed è proprio in questo contesto che il giovane William O’Neal, arrestato per furto d’auto e vagabondaggio, viene inviato, nel novembre 1968, all’interno delle Pantere di Chicago, sotto la supervisione dell’agente Roy Mitchell, con lo scopo di informare le autorità sulle attività del gruppo. In poco tempo O’Neal, guadagnatasi la fiducia di Hampton, diventa una delle figure di riferimento della sezione, e viene nominato capo della sicurezza del Partito.
Come si scoprirà poi molto più avanti, nel 1973, l’inserimento di infiltrati nei ranghi del partito, la costituzione di accuse gonfiate nei confronti degli attivisti e, naturalmente, l’esecuzione di raid armati alle sedi del partito da parte delle forze dell’ordine, rientravano in un più ampio programma di sorveglianza e controspionaggio, chiamato COINTELPRO, implementato su richiesta di Hoover per neutralizzare la minaccia antidemocratica rappresentata dalle organizzazioni politiche a carattere eversivo. Di questo vi era ampia consapevolezza, all’interno del movimento, come ricorda Deborah Johnson, compagna di Hampton: “Sapevamo benissimo che i nostri telefoni erano controllati, che avrebbero potuto pestarci o metterci in prigione quando volevano. Anche persone che non erano nostre affiliate avevano paura a venire da noi, perché sapevano che eravamo spiati. Bastava che chiamassi due volte i nostri uffici, e ti mettevano il telefono sotto controllo. A volte, durante le manifestazioni o i comizi, vedevi delle persone di colore lì, in mezzo alla folla, ma capivi che non c’entravano con noi, e si sforzavano di passare inosservati; erano poliziotti in incognito. Eravamo seguiti dappertutto, ma non potevamo lasciarci condizionare, farci distrarre dal nostro obiettivo.”
Nel novembre 1969, dopo l’omicidio a sangue freddo di due poliziotti da parte di Jake Winters, affiliato alle Pantere, Mitchell chiede a O’Neal lo schema dell’appartamento di Hampton, in previsione di un imminente raid. O’Neal, nell’intervista del 1989, conferma la richiesta dell’agente, ma nega di aver somministrato ad Hampton un sedativo la sera prima dell’assalto, come riportato da alcuni testimoni, tra cui Josè Jimenez, capo degli Young Lords: ” Ho conosciuto Fred per 16 mesi e non ha mai preso nessuna droga, non aveva bisogno di droghe, né per calmarsi, né per essere su di giri. Lo era già di suo. Secondo me la storia del sedativo è un’invenzione. Lo schema dell’appartamento? Sì, l’ho fornito io a Mitchell; a partire dal giugno 1969 me li chiedeva spesso. Quel giorno, quando ci siamo visti, sapevo che avevano in programma un raid, e bello grosso anche, puntavano ai leader… e l’appartamento in Monroe Street era pieno di armi, era il bersaglio più logico; quindi quando mi ha chiesto lo schema, non mi sono minimamente sorpreso, Lui non mi ha mai detto niente di esplicito, ma arrivati a quel punto, noi ci intendevamo alla perfezione, eravamo come una mente unica. Sapevo cosa volevano fare, volevano beccare Fred con le armi e rimandarlo in galera.”
Così, il 4 dicembre 1969, alle 4.30 del mattino, un manipolo di quattordici agenti della squadra speciale si presenta all’appartamento di Hampton; gli uomini, armati di una mitragliatrice, cinque fucili, cinque pistole calibro 38, una pistola calibro 357 e una carabina, crivellano di colpi la casa; oltre ad Hampton, a morire è Mark Clark, presidente della sezione delle Pantere di Peoria, in visita a Chicago per un incontro dell’organizzazione. Gli altri occupanti, tra cui proprio Deborah Johnson, incinta al nono mese, vengono immediatamente arrestati con l’accusa di tentato omicidio. Ecco proprio il ricordo di quella notte, nelle parole di Johnson: “La prima cosa che mi ricordo è di essere stata svegliata da uno dei nostri che stava scuotendo Fred, e gli diceva che c’erano lì i porci; io tentavo di svegliarlo, ma niente; poi mi arriva addosso la luce di cento torce e chissà cos’altro; l’appartamento era molto buio, quindi me lo ricordo bene; Allora mi metto accanto a Fred, e la persona che era con noi continuava a gridare che non sparassero più, che c’era una donna incinta in quella casa. A un certo punto Fred alza lievemente la testa dal cuscino, guarda in direzione del corridoio per un attimo, e poi la riabbassa. Da quel momento, non avrebbe più fatto alcun movimento.”
“Dopo un po’ la sparatoria finisce, e due poliziotti mi trascinano fuori dalla stanza, verso la cucina. Uno di loro mi prende per i capelli, l’altro mi apre la vestaglia; cerco di non perdere la calma, e per farlo, ripasso mentalmente il nostro manifesto programmatico più e più volte. Non dovevo lasciarmi andare, chissà cosa sarebbe successo. Intanto però sento altri colpi di pistola, e una voce che non conosco, pronuncia queste parole: “Non ce la farà mai, è più di là che di qua”, poi due spari, e ancora la stessa voce: “Adesso è bello che morto”. Ho capito che stavano parlando di Fred. Non ho mai visto il suo cadavere. Mentre ci portavano via dall’appartamento in manette, mi ripetevo che non avrei mai dovuto guardare in quella direzione, per paura di quello che avrei trovato. E così ho tenuto sempre gli occhi fissi davanti a me.”
Il 23 dicembre 1969, il sostituto procuratore chiamato ad occuparsi del caso formò una commissione indipendente chiamata ad esprimersi su quanto avvenuto. Al termine di un breve dibattimento, nel gennaio successivo, le morti di Hampton e Clark furono derubricate ad atti di legittima difesa; nello stesso anno, le famiglie intentarono una causa civile contro la città di Chicago; dopo una battaglia legale lunga più di un decennio, ai querelanti fu concesso un risarcimento pari a 1,85 milioni di dollari a testa, all’epoca il più alto mai elargito nell’ambito di una causa civile negli Stati Uniti d’America. William O’ Neal, dopo aver proseguito ancora per molti anni l’attività da infiltrato, si è tolto la vita il 15 gennaio del 1990, facendosi investire da un’auto sulla Interstate 290, un mese prima della messa in onda dell’intervista concessa per il documentario di PBS Eyes On The Prize, una retrospettiva sulle lotte per i diritti civili negli Stati Uniti.
Così, durante quella conversazione, O’Neal ha ricordato il momento in cui è venuto a sapere della morte di Hampton: “Il giorno successivo vado in sezione e la trovo deserta, Saranno state le dieci di mattina. Vedo una ragazza che sta parlando al telefono, e mi accomodo, aspettando che finisca per chiederle cosa fosse successo, e a quel punto intravedo una copia del Sun Times, con il titolo: “Leader delle Pantere Nere trucidato”; a quel punto, sconvolto, esco, e vado a mettermi su una radura di fronte all’appartamento; da lì vedo un sacco di auto della polizia; più tardi, vado all’appartamento insieme a Bobby Rush. Non appena entriamo, entrambi restiamo senza parole. Fu uno shock; faceva freddo, e c’era sangue dappertutto, i muri erano pieni di buchi. In quel preciso momento ho capito che le informazioni che avevo fornito, avevano facilitato l’assalto. La cosa mi fece stare male, mi fece incazzare, ma non ebbi mai la forza di dire niente. Continuai a fare quel lavoro, come se niente fosse. Ora, però, so che quel giorno ho perso qualcosa, qualcosa che non so dire; questa storia per me è stata una vera mazzata.”
Judas and The Black Messiah, diretto da Shaka King, vede Daniel Kaluuya nei panni di Fred Hampton, Lakeith Stanfield nel ruolo di Bill O’Neal e Jesse Plemons nel ruolo di Roy Mitchell.