Tra le sorprese cinematografiche nostrane del 2023 c’è sicuramente I Limoni d’inverno, film di Caterina Carone con protagonisti Christian De Sica e Teresa Saponangelo, che ha conquistato pubblico e critica fin dalla presentazione in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2023. Abbiamo avuto l’opportunità di intervistare la regista della pellicola, che racconta una delicatissima storia di resistenza umana e solidarietà fra spiriti affini, analizzandone i significati, il lavoro imbastito con gli attori e la necessità dello sguardo femminile per raccontare storie nel cinema italiano contemporaneo.
![Frame tratto dal film I limoni d'inverno di Caterina Carone](https://cinemaserietv.it/wp-content/uploads/2024/01/limoni-inverno-film-1-1024x429.webp)
Questo è un film di “due solitudini che si incontrano”, con protagoniste due anime in cerca di espressione, accomunate da una sensibilità speciale. Come hai concepito e, poi, caratterizzato questi personaggi? Da dove nascono?
Innanzitutto mi piace dire che questo è un film su due esseri umani che si incontrano. Il modo di dire “due solitudini che si incontrano”, che si usa spesso per raccontare film che narrano di relazioni, di amicizie e di amori platonici o meno, a mio parere non è corretta. Come se al mondo esistessero “solitudini” e “non solitudini”, mentre la verità è che ogni essere umano è solo. La solitudine non si misura in base a quante persone ti stanno attorno. La solitudine è una condizione ontologica della natura umana. Facciamo finta che non sia così, ma è così.
Dunque, la mia filmografia sino ad ora, i documentari Polvere, Le chiavi per il paradiso, Valentina Postika in attesa di partire, il cortometraggio Il sole e le altre stelle, il mio film precedente Fräulein – una fiaba d’inverno e l’ultimo film I limoni d’inverno, hanno sempre al centro, come fulcro generativo, la consapevolezza della profonda solitudine nella quale siamo immersi, e narrano di esseri umani che si incontrano, e che a volte si scontrano, per poi trovare però sempre una via di ascolto e di dialogo, in quanto unica possibilità per costruire qualcosa che sia anche solo di temporaneo sollievo, una scintilla di gioia, e quel che permette l’umana convivenza, la costruzione di qualcosa di bello, nel tempo che ci è dato vivere. Amo le storie costruttive, non distruttive, e anche quando c’è della distruzione, come nel prossimo film al quale sto lavorando assieme ad Alessio Galbiati, torna sempre anche la possibilità di costruire, la fede, la scelta di rimettersi in cammino nonostante il dolore. Questo tipo di narrazione è per me una missione.
C’é grande equilibrio tra regia e interpretazioni, come se si influenzassero a vicenda e procedessero di pari passo. Come sei riuscita a raggiungere la sensibilità giusta coi tuoi attori per raccontare questa storia?
Lavoro con persone e non con personaggi. Dunque per me l’incontro con l’attore è, prima di tutto, un incontro umano, estremamente vibrante di emozioni, di ascolto e di dialogo. Ed ecco che cominciamo a ragionare assieme su quel che la storia fa risuonare in lui, non solo come attore, ma anche e soprattutto come essere vivente nel mondo, ciò che sente di familiare all’interno della storia, ciò che gli è invece respingente. È così che forma e contenuto si intrecciano, in un abbraccio sincero. Con gli attori sentiamo di essere sulla strada giusta quando i dialoghi, i gesti, gli sguardi diventano “abitati”, nel senso di vivi, sentiti, autentici.
Nasci come documentarista: quanto il tuo occhio da “osservatrice del reale” ti ha aiutato a tratteggiare la Roma de I limoni di inverno?
Moltissimo, perché lasciandomi guidare dalla storia, che già di suo narrava di luoghi tangenziali, nascosti, solitari, ho cercato di lavorare su un immaginario quotidiano un po’ in via di estinzione, sulla Roma della prima periferia, che è una sorta di limes tra l’antica e inconfondibile maestosità del centro storico e l’anonimato dell’estrema periferia, identica a tutte le altre estreme periferie del mondo. I luoghi che abbiamo scelto mischiano questo e quello. Come dice Pietro in una scena del film, da una parte si vede la modernità, il futuro, che fa paura, dall’altra quel che rimane del passato, che è molto più armonioso, bello, aggraziato. Intendo per quel che riguarda l’architettura, perché non sono una fan del ritorno al passato, che spesso viene narrato al cinema come migliore, più puro, più buono, e non è vero affatto. Per tornare al film, abbiamo scelto con amore e passione ogni singola location, e devo ringraziare il mio collaboratore artistico Alessio Galbiati, la location manager, Ilena Aquino, lo scenografo Giuliano Pannuti e il produttore Massimo Di Rocco per il lavoro virtuoso che è stato realizzato in questo senso. Dopodiché la luce di Roma, magnifica, ineguagliabile – e Daniele Ciprì e la sua squadra – hanno fatto il resto. E il cinema è luce.
Volevo chiederti come hai guidato Christian De Sica nella scoperta del suo personaggio: una sfida molto interessante per un attore comico che ha spesso lavorato per stereotipi. Qui, sembra che si proceda “togliendo”, per ridurre all’essenziale un personaggio drammatico, un ritratto che diventa quasi una radiografia del personaggio.
Con Christian c’è ormai un rapporto di anni, che via via si è approfondito e consolidato, di lavoro, di amicizia e di stima. Avevamo voglia di fare un altro film assieme, che fosse un passo in avanti per entrambi, che ampliasse le nostre prospettive, per lui in quanto attore totale, non solo comico, per me in quanto regista capace di spaziare dalla commedia surreale, il mio primo film, ad un tipo di cinema più realistico e drammatico. Così è nata la possibilità di realizzare I limoni d’inverno. Né a me né a Christian piacciono i pregiudizi e le classificazioni, e in questo ci siamo molto trovati. Per me un regista deve avere il coraggio e la libertà di sperimentare, di rilanciare il proprio sguardo, di non fare sempre la stessa cosa, e così dovrebbe essere per un attore. Ci hanno dunque guidati questo spirito e questa voglia di libertà, di autenticità. E poi è stato tutto molto naturale. Christian ha un talento immenso ed è un uomo intelligente e sensibile. Per tratteggiare Pietro ha donato molto di se stesso, di se stesso in quanto persona, e non personaggio, con generosità e fiducia.
E con Teresa Saponangelo come hai lavorato?
Teresa è una creatura magica. Non abbiamo lavorato, abbiamo sognato. Lei aveva già dentro di sé tutto di Eleonora e a poco a poco, ad ogni ciak, ne ha lasciato vivere un pezzetto e poi un altro e un altro ancora nelle immagini. Teresa è un’attrice intuitiva, animata da un fuoco creativo che ha del miracoloso. Per fare una prima lettura della sceneggiatura mi ha invitata a casa sua; seduto al tavolo assieme a noi c’era il suo gattone stupendo, di nome Pietro (come il personaggio de I limoni d’inverno), che ci guardava con i suoi occhi gialli e indagatori. Una scena surreale, buffa, eppure naturale e realissima. È stato bello lavorare con Teresa, ti regala sempre qualche cosa d’inaspettato, che ti fa sorridere, oppure commuovere.
Con I limoni di inverno racconti il cinema delle piccole cose. C’è qualche regista o film specifico che ti ha ispirata dal punto di vista registico e narrativo e, tra le voci del cinema contemporaneo, c’é qualcuno che ammiri o senti particolarmente vicino come impostazione stilistica?
Anche qui mi spingi ad un’obiezione… sul modo di dire “cinema delle piccole cose”. Perché sono quelle piccole cose che quando personalmente ti capitano sono in realtà esplosioni capaci di distruggere tutto. Una volta un distributore, riferendosi al mio primo film (Fräulein – una fiaba d’inverno), mi disse: “a lui è morta la moglie, lei è sola e senza figli, ma che problemi sono? Io tratto di problemi sociali, di grandi questioni del mondo…”, a parte che nel porre il concetto, pronunciando i fatti dolorosi del mio film che però, a detta sua, non costituivano un problema dell’umanità, si è ammutolito all’improvviso e un certo malinconico turbamento gli ha offuscato lo sguardo… ma il punto è che ne stava parlando come se la morte e la solitudine non fossero un problema, anzi, il problema, dunque operando una vera e propria rimozione, e come se i problemi sociali e le grandi questioni del mondo non derivassero proprio dall’angoscia e dalla fragilità insite nella condizione umana. Siamo abituati a pensare in grande e fuori da noi, quando in realtà la riflessione e la rivoluzione partono da dentro, e ognuno nella sua singola vita può e deve fare qualcosa partendo innanzitutto da se stesso, attraversando il proprio dolore per vivere nel mondo con bontà, responsabilità e compassione. Purtroppo l’ideologia pervasiva nella quale siamo immersi, che ci spinge a rimuovere la morte e a cercare di ridurre la vita ad una ricerca di perfezione, di prevaricazione e di vittoria a discapito degli altri, in ogni ambito e in ogni disciplina, non aiuta, è un incantesimo malefico. Se solo fossimo in grado di pensarci tutti sulla stessa barca, che è anche l’ultima inquadratura del mio film…
Per tornare alla domanda, ammiro e amo tanti, tanti registi, del passato e contemporanei. È difficile per me sceglierne alcuni e tralasciarne altri. Certamente I limoni d’inverno è un film che deve molto ad una catena di grandi pensatori delle relazioni e della luce, come Éric Rohmer, Mike Leigh, Michael Haneke, Ingmar Bergman, Olivier Assayas, Vittorio De Sica, Paul Thomas Anderson. Tutti registi che ammiro tantissimo, ma stilisticamente non mi sento vicina a nessuno di loro in particolare, perché lo stile non è qualcosa che mi piace copiare, ma è qualcosa che cerco di sviluppare facendo, ogni mio film mi fa scoprire qualcosa in più del mio sguardo personale, attraverso limiti, errori, fragilità. È un po’ come la vita, vivendo scopriamo chi siamo, nel bene e nel male. Il vero stile non è sovrapponibile a quello di nessun altro.
![I protagonisti del film I limoni d'inverno (2023)](https://cinemaserietv.it/wp-content/uploads/2024/01/limoni-inverno-film-1024x576.webp)
Il tuo film si pone anche come omaggio alla figura femminile, anche all’interno della narrazione stessa. Pietro, infatti, sta scrivendo un libro dedicato a sua madre sulle donne dimenticate della storia. Mi sembra, soprattutto, che tu abbia cercato di omaggiare la forza femminile tramite la chiave dell’espressione. Il tuo film parla di tanti amori, anche legati alle passioni: qualcosa che ci rende estremamente umani e per cui dobbiamo continuare, sempre, a lottare. E’ così?
Assolutamente, sarebbe un sacrilegio vivere senza delle passioni, degli interessi o delle sfide creative. Abbiamo il compito di far germogliare qualcosa, nel corso del nostro transito terrestre. Si vive pienamente solo grazie alla curiosità, al desiderio di sperimentare, di piegare il linguaggio (qualunque tipo di linguaggio, dalla pittura alla matematica) in qualcosa che amplifichi il senso dell’esistere, che cerchi di arrivare ad una comprensione, oppure che lo renda più bello, magari più dolce e meno doloroso. Le donne, in questo senso, sono il simbolo della lotta creatrice, non solo generativa, nel senso di generare figli, ma creatrice in tutti i sensi perché, nel corso dei millenni, hanno dovuto sempre lottare per imporre il proprio sguardo e il proprio fare, solo perché fisicamente più deboli degli uomini. Giudicare un essere umano in base alla forza fisica è idiota. Mentre in quanto a cervello certe donne non sono da meno a nessuno, tipo quelle di cui scrive Pietro nel suo libro, Tina Modotti, Hilma af Klint, Hedy Lamarr, Zelda Fitzgerald, Alice Guy. Grandi esseri viventi, artiste e pensatrici.
Una riflessione che accomuna il tuo film a C’è ancora domani di Paola Cortellesi, di cui stiamo seguendo il clamoroso successo e risultati al botteghino. Pensi che siamo sulla strada giusta per l’affermazione di un cinema sempre più “al femminile” e sul femminile in Italia? Quanto è importante che il cinema italiano si impegni a raccontare queste storie?
Importantissimo, meraviglioso e naturale. Per troppo tempo il cinema ha proposto ruoli femminili impregnati di stereotipi stantii e offensivi da televisione privata. Però mi auguro che l’aumento di donne nel campo della regia non venga raccontato come la riscossa del “cinema al femminile”, che è un recinto del quale io personalmente non voglio fare parte, e secondo me neppure le mie colleghe. Perché sembra un modo per ridurre il discorso al tè delle cinque nel salotto di casa, dunque a qualcosa che non dà fastidio a nessuno, per anime sensibili e pie, mentre le donne che fanno questo mestiere devono essere forti e coraggiose, lottare per imporre il proprio cinema esattamente e spesso più dei loro esaltatissimi colleghi, e mediamente lo fanno per raccontare delle storie che possano parlare a tutti, alle donne, agli uomini, ai giovani, ai vecchi… Insomma, agli esseri umani.