Il film: Asteroid City, 2023. Regia: Wes Anderson. Cast: Jason Schwartzman, Scarlett Johansson, Tom Hanks, Jeffrey Wright, Edward Norton e Bryan Cranston. Genere: Commedia. Durata: 104 minuti. Dove l’abbiamo visto: In anteprima stampa e in lingua originale, al Festival di Cannes.
Trama: Siamo nel 1955, e nella fittizia cittadina desertica di Asteroid City studenti provenienti da ogni angolo dell’America, accompagnati da insegnanti e genitori, si incontrano per partecipare alla Junior Stargazer, annuale convegno di astronomia.
Amatissimo in primis dal festival di Cannes – anche perché, da solo, porta sulla Croisette decine di star hollywoodiane – ma anche da una schiera comunque significativa di spettatori e fan di lunga data, Wes Anderson torna con un nuovo film coerentemente in linea con il percorso artistico tracciato negli ultimi anni. E quindi un film fatto di centinaia di inquadrature splendide e geometriche, sparuti momenti divertenti e brillanti, ma zero emozioni, zero empatia per i personaggi e le loro motivazioni, zero idee di come, e soprattutto perché, raccontare una storia. Eppure, come vedremo in questa recensione di Asteroid City, verso la fine affiora un qualche barlume di speranza per il futuro: Wes Anderson vorrà e potrà finalmente cambiare?
A cosa serve la trama quando ti chiami Wes Anderson?
Partiamo però dalla trama che, ovviamente, non c’è. C’è però una cittadina fittizia, Asteroid City appunto, in cui si raccolgono e incontrano decine di persone ogni anno, adulti e soprattutto ragazzini, tutti appassionati di astrologia. Migliaia di anni prima, in questa non precisata location desertica, è caduto un meteorite, ed è per questo che ancora oggi scienziati e appassionati americani studiano lo spazio e i suoi misteri. Un inaspettato avvenimento sconvolgerà (ma nemmeno più di tanto) il loro soggiorno e li costringerà a trascorrere una quarantena forzata nella minuscola cittadina.
Non c’è molto ad Asteroid City a dirla tutta: un meccanico, un diner, un motel, il cratere con il meteorite e poco altro. Quel poco che c’è, però, ci viene perfettamente mostrato da Wes Anderson con il suo stile unico e riconoscibile: inquadrature perfettamente simmetriche, scenografie e costumi essenziali ma dalla perfetta palette cromatica – Anderson è armocromista da tempi insospettabili, ben prima che fosse di moda – movimenti di macchina essenziali e qualche sporadico split screen. Il manierismo di Wes Anderson è ovviamente presente e preponderante su tutto, perfino sulla verbosità (comunque insistita, anche se forse leggermente meno rispetto a The French Dispatch) tipica dei suoi script.
Un cast vastissimo per riempiere il vuoto
L’unica cosa che può (forse) pareggiare il formalismo del regista, è la sua capacità di riuscire a coinvolgere un cast sempre più ricco e prestigioso. Da vent’anni, ormai, Wes Anderson ha un gruppo di fedelissimi sempre più vasto, nomi che già da soli sarebbero il sogno segreto di tanti altri filmakers: parliamo di Jason Schwartzman, Tilda Swinton, Edward Norton, Adrien Brody, Willem Defoe o Jeff Goldblum tutti con lui da molto tempo, se non da sempre. A questi si aggiungono new entry di peso quali Scarlett Johansson, Tom Hanks, Steve Carell, Margot Robbie, Maya Hawke e Bryan Cranston, e molti altri ancora.
Il risultato è una lista da far spavento, certo, ma anche di un affollamento spesso ingiustificato, anche perché per molti di questi lo screen time è davvero misero e spesso anche poco significativo. L’impressione, già da tempo, è che non sia davvero più importante il personaggio, quello che dice e che rappresenta, ma l’attore stesso. Che sia una sfilata, magari anche piacevole e divertente, di volti noti, in fondo non troppo dissimile da quella che possiamo vedere sul red carpet del festival o ad una serata degli Oscar. E che gli attori stessi si prestino proprio perché si tratta, in primis per loro, di un gioco, di un divertimento, quasi come fosse una vacanza con colleghi e amici. Ma dietro la parata di star, il vuoto creativo, di contenuti e di emozioni, è davvero palese.
L’elefante (al centro) nella stanza
Un vuoto ormai talmente presente ed evidente, da non poter essere più ignorato. Nemmeno dal regista stesso che infatti mette al centro del suo film e della sua cittadina un enorme cratere, intorno a cui circolano i suoi personaggi/star e ne sono prima irrimediabilmente attratti per poi volerne, alla prima occasione, fuggire. Che Wes Anderson sia consapevole di tutto questo è evidente non solo per l’immagine di cui sopra, ma anche per tutta la cornice meta che da al suo film: se nel precedente film la “scusa” era una rivista (immaginaria), qui c’è una produzione teatrale (sempre fittizia) che racchiude il tutto e fornisce un nuovo livello di lettura al suo film. Sono quindi, ad un certo punto, gli stessi personaggi del film a farsi domande sul perché di alcune scelte, su quali siano le motivazioni che li spingano a fare e dire certe cose. Del perché di questo mondo così bizzarro e “finto”, in cui nulla è reale, realistico o anche solo razionale.
Alle domande, sacrosante, che vengono poste, l’autore (interpretato da Norton) non sa e non può rispondere. Verrebbe da dire: “Troppo facile così, caro Wes Anderson, troppo facile!”. Ma intanto la domanda sembra essersela posta e noi di questo possiamo comunque rallegrarci. E magari goderci un po’ di più un film che è comunque divertente e piacevole nella sua leggerezza, sperando però che quella domanda continui ad aleggiare nella testa di Anderson e che prima o poi decida di rispondere. Magari con un gran film, quello che manca ormai da troppo tempo.
La recensione in breve
Asteroid City è l'ennesimo tassello in una filmografia ormai ben definita, che poco aggiunge a quanto già visto ma che farà sicuramente la gioia di chi ancora ama il cinema di Wes Anderson senza se e ma. Per tutti gli altri, c'è probabilmente da gioire per la maggiore leggerezza rispetto al precedente The French Dispatch e soprattutto per quella che sembra essere una prima consapevolezza, se non addirittura un primo barlume di autocritica, di una vuotezza di contenuti ormai sempre più lampante.
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