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Home » Film » Recensioni film » Black Christmas, la recensione del remake horror

Black Christmas, la recensione del remake horror

La recensione di Black Christmas, il secondo remake della pellicola del 1974 di Bob Clark: Black Christmas – Un Natale rosso sangue
Valeria MaiolinoDi Valeria Maiolino17 Febbraio 20236 min lettura
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Black Christmas, la locandina del film
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Il film: Black Christmas, del 2019. Creato da: Jason Blum, Ben Cosgrove, Adam Hendricks. Regia: Sophia Takal. Cast: Imogen Poots, Lily Donoghue, Aleyse Shannon, Brittany O’ Grady. Genere: Orrore. Durata: 98 minuti. Dove l’abbiamo visto: su Netflix.

Trama: Un agghiacciante assassino si aggira per il campus dell’Hawthorne College con l’intento di uccidere le ragazze appartenenti alle confraternite. Dopo averne massacrate alcune, il killer punta sul gruppo di amiche della consorellanza MKE, formato da Ridley, Kris, Marty e Jesse.


È il 1974 quando nelle sale esce Black Christmas (Un Natale rosso sangue), film diretto da Bob Clark e sceneggiato da Roy Moore. La pellicola è considerata un cult dello slasher nonché uno dei primi a rientrare nella categoria, seppur il sottogenere abbia raggiunto la fama solo qualche anno dopo con Halloween – La notte delle streghe di Carpenter, considerato come vero capostipite. Il successo dello slasher, che negli anni è riuscito a trovare il suo spazio fisso al cinema, risiede innanzitutto nel target a cui si rivolge, ossia i giovani. Gli argomenti riportati nelle storie, come sessualità e vita universitaria, sono riusciti ad attrarre un numero sempre più grande di teenager, tanto da ottenere considerevoli successi al botteghino. Non solo: molte sono le icone nate dal sottogenere e impresse nel nostro immaginario collettivo. Basti pensare ai famosi Michale Myers e Freddie Krueger, fioriti nel periodo della Golden Age (1978-1984).

Eppure, seppur se parte del successo degli slasher movie lo decretano le figure degli assassini, il Black Christmas di Clark è riuscito in egual misura a suscitare interesse pur celando l’identità del killer. Un escamotage furbo, capace di sorprendere lo spettatore e lasciarlo a bocca asciutta, con un punto interrogativo che lo perseguiterà. Insomma, una bella carta vincente. Proprio per l’impatto avuto su noi fruitori, della pellicola se ne sono realizzati ben due remake: il primo del 2006 diretto da Glen Morgan e il secondo del 2019 diretto da Sophia Takal. Ed è di quest’ultimo che parleremo. Nella nostra recensione di Black Christmas, approdato su Netflix il 15 febbraio, vi spiegheremo perché si presenta come un prodotto molto distante sia a livello di contenuto che di tecnica dal suo predecessore.

La trama: un Natale soprannaturale

Black Christmas, un'immagine della protagonista

È sera quando una studentessa dell’Hawthorne College viene assassinata da un killer incappucciato dopo aver ricevuto inquietanti messaggi. Nel mentre, il resto degli studenti si prepara a trascorrere le vacanze natalizie. Nella consorellanza Mu Kappa Epsilon (MKE), Ridley (Imogen Poots) sta cercando di ritrovare se stessa dopo essere stata vittima di stupro da parte del capo della confraternita Delta Kappa Omicron (DKO), Brian Huntley (Ryan McIntyre). Una sera, dopo essersi esibita con il suo gruppo di amiche alla DKO, la ragazza si imbatte in uno strano rituale iniziatico, svolto con la statua del fondatore della Hawthorne College.

Tutto poi precipita quando alcune ragazze iniziano a scomparire. Riley sospetta subito che ci sia qualcosa che non vada, ma nessuno le crede. I suoi dubbi diventano però realtà quando, rimasta sola con le amiche, un killer incappucciato irrompe alla MKE con l’intento di ucciderle. Nel tentativo di sfuggire alla morsa dell’assassino, le ragazze scoprono che in realtà ci sono più individui mascherati nella casa, e tutti sembrano sotto effetto di una strana possessione. Riuscita a scappare, Ridley scoprirà che il DKO nasconde un segreto a dir poco scioccante.

Una storia confusa

Black Christmas, una scena del film

Una delle regole auree del cinema è l’identificazione del voyeur con i personaggi sullo schermo. Il voyeur siamo noi spettatori. Questo processo è indispensabile per creare un contatto quanto più autentico possibile con il protagonista della storia, oltre a garantirci massimo coinvolgimento. Ma per attivarlo bisogna che il discorso filmico funzioni. E in Black Christmas non avviene mai. Le prime inquadrature fanno sperare: c’è un busto di marmo immerso in un’atmosfera inquietante, delle fiamme in sovrimpressione, urla che poi si trasformano in risate. Questa messa in esposizione rende l’ingresso nella narrazione molto tetro. L’incipit sembra promettente finché la cinepresa non si focalizza sulla malcapitata che inizia a ricevere strani messaggi dal presunto killer. Sta per succedere qualcosa, e quel qualcosa altro non è che l’incidente scatenante che permetterà al film di progredire. Ma rimaniamo delusi.

L’assassino appare e scompare nell’inquadratura fino ad uccidere la giovane donna, in una sequenza priva di tensione e pathos. L’inizio lascia a desiderare, ma nel corso della fruizione di Black Christmas la rappresentazione degli omicidi resta pressoché invariata. Conosciamo la nostra final girl quasi subito, Ridley, e con essa il suo gruppo di amiche destinate a morire. Una fragile universitaria orfana vittima di stupro che cerca di essere invisibile. L’ennesimo cliché. La macchina da presa indugia spesso su di lei, ma nonostante questo riceviamo informazioni sparse sul suo conto, con una composizione frammentata e superficiale della sua personalità. La povertà di nozioni sulla protagonista si riflette anche sui suoi comprimari. In sostanza non sapremo mai nulla che ci invogli a legarci né a lei né agli altri.

Mentre dunque cerchiamo di capire in che direzione andrà la storia, ecco che a sprazzi vengono mostrati gli omicidi, tutti in fuoricampo e senza una goccia di sangue che sporchi lo schermo, tanto da categorizzare l’opera più come una parodia dello slasher, che uno slasher vero e proprio. Ogni dinamica diventa scialba, introdotta solo per permettere alla pellicola di arrivare almeno ai suoi 90 minuti. Neanche il climax finale sorprende, anzi ci si arriva di fretta dopo aver perso tempo ad esplorare inefficacemente delle relazioni non strutturate. Il caos che regna nell’ultima mezz’ora è sconcertante. Riti, sette e possessioni iniziano a prendere vita in maniera disordinata, mentre scopriamo che l’assassino non è uno ma tutti i maschi della DKO.

Il potere delle donne: una tematica mancata

Black Christmas, una scena dal film

Black Christmas nell’atto conclusivo sembra voler mostrare la sua vera natura, ossia essere un film di denuncia contro una società ancora strettamente patriarcale e misogina. La tematica, che ad oggi è ancora molto calda, avrebbe acquistato grande valore nell’epoca del #metoo se fosse stata trattata con una scrittura più approfondita e seria. Soprattutto perché quando è inserita sembra avere tutti i presupposti per essere ben lavorata, ricordandoci anche le parole di Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé. I motivi che infatti spingono i killer a uccidere le donne vanno ricercati, come dice l’autrice, nella loro mancanza di fiducia in se stessi.

Le donne, che fungono da specchio, devono risultare più piccole per fagocitare il loro ego e sentirsi virili, sicuri e forti. Eppure tutto sfocia nel ridicolo nelle battute finali del professor Gelson, figura machiavellica per eccellenza, il quale con un monologo quasi teatrale dichiara la sua posizione fallocrate correlata al compito di ristabilire la supremazia maschile. Una distruzione del sottotesto che annienta le poche operazioni narrative fin qui applicate. La pellicola scade purtroppo nel dissonante e svilisce un tema importante come quello della parità dei sessi. Black Christmas risulta così un prodotto mal riuscito, che si allontana dall’intrigo ben confezionato da Bob Clark.

Conclusioni

4.0 Scarso

Black Christmas risulta un prodotto poco strutturato sia nel contenuto che nella tecnica, privo di suspense ed effetti speciali che aggancino lo spettatore. Una storia che vuole portare sulle spalle la tematica del femminismo, ma che rimane debole nella scrittura e nella caratterizzazione dei personaggi.

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