Il film: Gli orsi non esistono – Khers nist Regia di: Jafar Panahi. Cast: Jafar Panahi, Mina Kavani, Naser Hashemi, Vahid Mobasheri.
Genere: drammatico. Durata: 106 minuti. Dove lo abbiamo visto: in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, in lingua originale.
Trama: il regista Jafar Panahi, bloccato da anni in Iran con l’accusa di propaganda antigovernativa, segue la produzione del suo nuovo film a distanza, da un piccolo villaggio rurale dove ha affittato una stanza. Quando scatta la presunta foto di una coppia di giovani del luogo, Panahi scatena involontariamente la reazione degli abitanti del paese.
Sin dai suoi primi minuti, il gioco a incastri de Gli orsi non esistono ci spinge a considerare ciò che sta oltre le immagini del film. La messa in abisso, che si palesa quasi subito con elegante naturalezza, muove il nostro sguardo oltre il quadro cinematografico, ponendo ciò che avviene sullo schermo in una prospettiva esplicitamente “meta” – come ormai è consueto nell’opera di Jafar Panahi. Il regista iraniano, che qui interpreta sé stesso come faceva in Taxi Teheran e Tre volti, è il protagonista del film dentro e fuori dallo schermo: riconferma di un cinema dove l’autore è costantemente partecipe, nel quadro e nella cornice, come persona e come personaggio. Una visione spiazzante dove forma e sostanza si ricongiungono nel corpo registico, un cortocircuito filmico-politico sensazionale di cui vi parliamo in questa recensione de Gli orsi non esistono.
La trama de Gli orsi non esistono
Quella di Panahi è una presenza doppiamente forte perché fa da contraltare a una grave mancanza. Alla presentazione del film a Venezia, dove è in concorso per il Leone D’Oro, il regista non sarà presente: dopo un primo arresto nel 2010, Panahi è stato nuovamente arrestato lo scorso luglio, e condannato a scontare una pena di sei anni di reclusione (ricevuta nel 2010 ma ancora non eseguita). Fino a quel momento l’autore, in attesa che il processo contro di lui si concludesse, ha avuto la possibilità di spostarsi all’interno dell’Iran, senza però poter lasciare il paese o girare film.
Gli orsi non parlano, dunque, è innanzitutto un atto di resistenza contro la prigionia del suo regista, il diario di un carcerato che rifiuta la propria condizione. Il Panahi-protagonista del racconto, prigioniero politico come nella realtà, decide di produrre un film che racconta della propria esperienza: ingaggia così attori confinati in Iran, e ne mette in scena il tentativo (per metà vero e per metà fittizio) di fuga dal paese. Segue le riprese del suo film a distanza, in un piccolo villaggio sul confine dove, senza rendersene conto, la sua smania di registrare ciò che lo circonda mette in crisi gli abitanti, ancorati saldamente ad antiquate credenze.
Panahi osserva la realtà, la riproduce e la controlla, si scontra con le ingiustizie e con le credenze del suo paese (gli orsi del titolo fanno riferimento ad una vecchia diceria del villaggio), mantenendo il suo sguardo indagatore fisso su di sé: il cinema è sempre stato per lui il modo prediletto di raccontare, anzi testimoniare la propria verità, e lo è ancora di più in quest’ultimo film, che della realtà produce una moltitudine vertiginosa di riflessi.
Linguaggio della maturità
Nel tessere questo discorso di rimandi e riproduzioni, l’autore iraniano, al vertice della sua maturità, modella il proprio linguaggio registico con una consapevolezza che ha del miracoloso. Sa dosare il campo largo e quello ristretto, passando dal totale al singolo nei momenti più cruciali; non ha paura di palesare il lato “sporco” del film, e mostra senza timore la texture digitale e artificiosa del filmato nelle scene notturne; gioca con la prospettiva dello spettatore, rompe la quarta parete per metterci di forza nei suoi panni e osservare le riprese del film insieme a lui, come lui. Quello de Gli orsi non esistono è uno stile misurato, spoglio ma pienamente auto-cosciente, che conosce il valore di tutte le sue parti, e che dai mezzi più semplici sa cavare una quantità spropositata di significati. E se la giustapposizione fra i versanti del racconto può apparire straniante, l’occhio di Panahi consegna il racconto a una dimensione filmica che ne fa un oggetto purissimo, unico e singolare.
Un film che è un’autoriflessione
Nello spazio del meccanismo meta, però, l’autore spinge il film oltre la primissima dimensione autoriflessiva. Il Panahi de Gli orsi non esistono approccia il mondo attorno a sé con una leggerezza per cui non c’è più spazio: il tentativo di dare un finale positivo alla storia dei due fuggiaschi è inconciliabile con la loro triste condizione, e il suo sguardo estraneo sugli abitanti del villaggio ha conseguenze tragiche. Racconta cioè, come il collega Iñárritu fa in Bardo, della necessità di una nuova consapevolezza artistica, dell’impossibilità di conciliare visione critica della storia e velleità romanzesche. Ma se la politica di Iñárritu è massimalista ed espansiva, quella di Panahi è spoglia ed economica, e passa attraverso un autoritratto impietoso che è girato con documentaria immediatezza, di una semplicità quasi disturbante. Mettendo in scena consapevolmente il suo ruolo di “narratore”, Panahi fa così una vera e propria auto-denuncia mediatica: che un’osservazione del genere venga fatta da un regista sfrontato e coraggioso come lui è un gesto semplicemente straordinario.
Cinema eroico
Le circostanze in cui Gli orsi non esistono è stato presentato a Venezia saranno il principale motivo di dibattito sul film, e risulteranno cruciali nella scelta del premio finale – è giusto così: di autori esplicitamente, orgogliosamente politici come Panahi ce ne sono pochi, ed è corretto che vengano riconosciuti. Ma Gli orsi non esistono conta soprattutto perché non si limita all’istanza ideologica, ma trova lo spazio di rivalutare criticamente l’opera di un autore che sa mettersi in discussione sempre e comunque. Anche nel racconto della sua prigionia, quello di Panahi non smette di essere cinema di auto-ricerca: in questo senso Gli orsi non esistono è un’opera doppiamente eroica, e rappresenta senza dubbio una delle visioni più cruciali di questo festival. E, nel caso, un meritato Leone D’Oro.
La recensione in breve
Un atto cinematografico coraggioso e irrepetibile, e un gesto di auto-critica di devastante rilevanza: Gli orsi non esistono è un film imprescindibile che consacra Panahi come l'artista eroico che è. Un'opera unica che merita un posto nella palmarès del festival di quest'anno.
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