Il film: Run Sweetheart Run, 2022. Regia: Shana Feste. Genere: Horror. Durata: 97 minuti. Dove l’abbiamo visto: Su Prime Video, in lingua originale.
Trama: Dopo quello che inizia come un semplice appuntamento, una madre single si ritrova braccata da un aggressore mostruoso e apparentemente inarrestabile.
Dopo due anni dalla sua anteprima al Sundance Film Festival 2020, Run Sweetheart Run approda finalmente su Prime Video. Prima incursione della regista Shana Feste nel genere horror ma sicuramente non ultima – dopo aver terminato le riprese del film, ha detto che girerà solo film dell’orrore – Run Sweetheart Run si presenta come una personalissima rielaborazione stilistica di un trauma che ha accompagnato per tempo la regista: lei stessa è stata vittima di un appuntamento combinato che si è rivelato un vero e proprio incubo e l’ha resa vittima di una violenza sessuale. Nella nostra recensione di Run Sweetheart Run vedremo come Shana Feste sia riuscita abilmente a ritagliarsi la dimensione narrativa appropriata per intercettare un discorso attualissimo – la violenza sulle donne – senza rinunciare all’intrattenimento e a una firma registica che, siamo sicuri, ha appena iniziato la sua corsa.
Run Sweetheart Run, la trama: appuntamento al buio
Inizialmente timorosa quando il suo capo insiste perché incontri uno dei suoi clienti più importanti, la giovane mamma single Cherie (Ella Balinska) si sente sollevata e sinceramente coinvolta quando incontra il carismatico Ethan (Pilou Asbæk). L’influente uomo d’affari supera ogni aspettativa e fa perdere la testa a Cherie ma, alla fine della serata, quando i due sono soli insieme, lui rivela la sua vera natura violenta. Cherie, terrorizzata, fugge per salvarsi: inizierà così un’implcabile partita per la sopravvivenza, in cui Ehtan, belva assetata di sangue e intenzionato a distruggerla psicologicamente, non smetterà di agguantare la giovane. In questo thriller oscuro e che non rinuncia alle tinte fumettistiche, Cherie si ritrova nel mirino di una cospirazione più strana e più malvagia di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
Cherie: la disgrazia nella dolcezza di un nome
Se di nome fai Cherie, gli uomini attorno a te si sentiranno ulteriormente legittimati ad affibbiarti vezzeggiativi e nomignoli di dubbio gusto. Automaticamente, diventi una sweetheart per tutti. Il rosso del tuo sangue, dei tuoi abiti e del tuo essere donna, verranno fiutati, cercando di piegare la tua esistenza a un sistema che ti percepisce come un “tesorino” e nulla più. Partendo dalla situazione di svantaggio cucita attorno alla sua persona e tipica delle origin stories degli eroi, Cherie dovrà cercare di liberarsi delle connotazioni e delle percezioni che gli altri proiettano su di lei, in una caccia tra gatto e topo che sembra essere prelevata direttamente dalle pagine di una graphic novel. Los Angeles è una sin city, dove per smacchiarti dalle barbarie devi costantemente cercare di tenerti pulito. Non c’è un inizio del gioco, non c’è un traguardo a cui questa caccia arriverà: potenzialmente, tutto di LA spaventa, dall’autista di un taxi ad altre donne che non credono alla nostra testimonianza: Cherie potrebbe trovarsi in questo meccanismo distorto già da tempo, ma rendersene veramente conto solo quando un carismatico uomo d’affari spegnerà le luci della città.
Corri e non voltarti
La chiave del sodalizio dialogico tra regista e attrice fa procedere l’intera narrazione. Laddove nemmeno a Shana Feste è concesso interporsi tra la paura della vittima e la brutalità del carnefice, la regista sceglie di indirizzare la sua protagonista tramite la cinepresa. L’aguzzino intima a Shana Feste di non avvicinarsi, relegando l’impatto delle violenze da lui perpetrare al fuoricampo, con solo l’apparato sonoro destinato a farne da eco. A questo punto, l’unico modo in cui la regista può creare una corrispondenza con l’intelletto di Cherie è tramite il mezzo filmico che padroneggia: cerca di farle capire quando scappare, di offrirle degli appigli e condurla verso una via di fuga che, forse, avrebbe voluto qualcuno le indicasse nella vita reale.
Si fa squadra anche nel silenzio
Navigando tra le strade di una Los Angeles tutt’altro che ospitale e nella psicologia di un villain che va disumanizzandosi, Shana Feste confeziona un horror che dispiace sinceramente poter vedere con due anni di ritardo. Con una sinergia ottimamente calibrata tra scrittura e i vari comparti tecnici – non mancano i riferimenti camp che potrebbero sfociare nel trash, ma la regista riesce sempre a riportare il focus sul viaggio della sua eroina – Run Sweethurt Run riesce, con tutte le limitazioni del caso, trattandosi di un progetto a suo modo indipendente, dove un’opera ambiziosa come Men di Alex Garland è caduta: nella messa in scena del punto di vista, nella costruzione di un’eroina a tutto tondo che trova la propria forza nel legame con altre figure femminili. Dalla figlia ad altre vittime, passando per la stessa regista, Cherie è una final girl destinata dall’inizio. Urla e combatte per il silenzio di chi ha dovuto lottare come lei e non ce l’ha fatta, legittimando ogni simbologia legata all’essere donna che possiamo analizzare durante il film. Cherie combatte, soprattutto, in nome del colore rosso: quello del sangue che la rende viva, dei cambiamenti fisiologici che la rendono donna, delle ferite che la renderanno guerriera. Una guerriera che non ha paura di correre.
La recensione in breve
Run Sweetheart Run è un film sul punto di vista, in cui eroina e regista dialogano continuamente: è una conversazione spesso ostacolata, ma portata avanti per ostracizzare un silenzio che ha fatto troppo male e contro cui si può solo correre.
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Voto CinemaSerieTv