Il film: Saint Omer, del 2022. Regia di Alice Diop. Cast: Kayije Kagame. Genere: Drammatico. Durata: 122 minuti. Dove lo abbiamo visto: alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2022, in lingua originale.
Trama: Rama è una studiosa che decide di approfondire da vicino il processo per infanticidio di una donna che sostiene di aver ucciso la figlia a causa del malocchio e della stregoneria.
Alice Diop è una regista che viene dal documentario. Questa influenza si vede nella realizzazione del suo primo film di finzione, Saint Omer, che tratteggia il processo di una donna che ha ucciso la propria bambina, riportato con il distacco e l’analisi di un occhio abituato a prendere le distanze dall’argomento di interesse.
L’intenzione è quella di compenetrare un background realistico ad una dimensione che permettesse alla creazione della cineasta di confrontarsi con un linguaggio di cui aveva sperimentato al momento soltanto una potenzialità. Portata al massimo con un debutto finzionale dietro a cui però la sua mano continua enormemente a farsi sentire, non lasciando completamente alla deriva gli appassionati del cinema del reale, mostrandone un lato dell’intensità dell’autrice costruito su più livelli.
Nella recensione di Saint Omer indaghiamo le sinergie tra le differenti linee narrative che l’opera di Alice Diop fa confluire in un unico racconto, non abbandonando un approccio su cui la regista e sceneggiatrice fa affidamento, cercando di trasportare il proprio stile anche in un contesto di cui era estranea, ma in cui riesce a muoversi con sicurezza e precisione.
La trama di Saint Omer
Nel suddividere in tre filoni della maternità la pellicola, tenendo come evento principale il processo di questa giovane madre che ha scelto di affogare la figlia per vivere una vita più facile, Saint Omer restituisce le incertezze che possono subentrare quando si diventa genitori prendendo come fulcro la protagonista Rama. Il personaggio interpretato da Kayije Kagame è una studiosa che segue da esterna le vicende di un tribunale che deve decidere se dare la pena massima a quella ragazza che sembra non pentirsi del terribile gesto commesso, ma in cui si sentirà enormemente coinvolta trovandosi in quel momento in dolce attesa e percependo delle rimostranze verso il suo futuro ruolo di madre.
Dubbi e preoccupazioni sollecitati anche dal ricordo della sua stessa infanzia e dal rapporto conflittuale con la genitrice. Una donna distaccata e stanca, di cui le immagini ci restituiscono un ritratto distante e nervoso. Silenzioso nel riportare un’incomunicabilità da cui il loro rapporto era afflitto, generando un ulteriore timore nel diventare lei stessa figura materna, spaventata da quello che potrà accadere.
Tra verità e finzione
La sorpresa di una pellicola come Saint Omer non è la bravura di una Alice Diop che aveva già precedentemente mostrato di saper maneggiare una camera da presa in cui incanalare persone e singolarità da osservare con trasporto pur nella cornice (semi) oggettiva con cui inquadrare la verità. L’anima da documentarista dell’autrice fuoriesce soprattutto per impostare una regia e una sceneggiatura che rispettano rigorosamente una struttura asciutta e ridotta all’osso, dove la parola sostiene la macchina da presa e viceversa.
Immagini fisse per scambi di battute limitati agli atti e alle dichiarazioni dei presenti nell’aula, dove non c’è spazio per alcuna emozione se non quella che è in grado di restituirti la realtà. Quella che viene simulata, ma ben colta dalla regista. Uno scambio alla pari tra narrazione e messinscena, in cui alle sequenze non serve altro se non la parola.
Saint Omer: rigore e emozione
Cioè che colpisce di Saint Omer è che proprio da un contesto così formale e meticoloso si coglie gradualmente un’indagine dura eppure necessaria di fronte a cui dovrebbe porsi ogni donna per una riflessione sulla percezione della maternità di cui non si dovrebbe avere paura di parlare. L’esorcizzazione del gesto più estremo, atroce, doloroso che potrebbe capitare – una madre che toglie dal mondo la stessa creatura che aveva messo -, ma che bisogna fronteggiare per cercare di capirne le motivazioni e fare in modo che non avvenga più.
Una lontananza che ricerca un’apparente oggettività, mentre nei fatti ti entra nella mente per passare immediatamente dopo allo stomaco, smuovendo sentimenti che non si credeva fosse possibile riuscire a suscitare vista la fissità e l’intransigenza delle inquadrature.
Un’arringa analitica e emotiva
Un’operazione che comprime la competenza documentaristica e lascia lo spiraglio aperto per un proseguimento nella fiction in cui ci si domanda quale potrebbe essere la prossima mossa di Alice Diop. Un’arringa in cui la regista ci ha travolti e convinti, non sottraendoci dal ragionare sulla brutalità della vita, appellandosi alla nostra interiorità e etica.
Conclusioni
Sain Omer vede la cineasta Alice Diop addentrarsi nel mondo della fiction inserendo all'interno gli elementi a lei cari dei suoi lavori documentaristici. Un'opera che sembra inizialmente analitica e lontana, ma che in realtà nasconde una riflessione umana e emotiva.
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