Il film: Sanctuary, 2022. Regia: Zachary Wigon.
Cast: Margaret Qualley, Christopher Abbott. Genere: Commedia, drammatico. Durata: 96 minuti. Dove l’abbiamo visto: Al cinema, in anteprima.
Trama: Rebecca è una dominatrice, una professionista del sesso, e Hal è il suo cliente. Quando decide di vederla per un’ultima volta e dirle che tra loro è tutto finito, Rebecca è tutt’altro che d’accordo.
Rebecca e Hal sono in una camera d’albergo per un colloquio di lavoro. O, almeno, questo è quello che sembra. In realtà, lo scopriamo subito, entrambi stanno recitando un copione, un copione scritto ad arte, un gioco di ruolo e di seduzione. È un copione che ha un punto di partenza – che sono le debolezze e le peculiarità di lui – e un punto d’arrivo, che è la chiave del gioco. Lui dovrà farsi comandare, trattare male, dominare. E questo è proprio il lavoro di lei. È qualcosa di mentale, non di fisico, ed è quello di cui lui ha bisogno. Inizia così il film che vi raccontiamo nella recensione di Sanctuary: una storia che parla di giochi di seduzione e di potere, ma che una sceneggiatura troppo cerebrale e costruita non rende mai vibrante. È una prova di bravura per Margaret Qualley, ed è lei che vale il prezzo del biglietto.
La trama: La relazione pericolosa
Rebecca (Margaret Qualley) è una dominatrice, una professionista del sesso e Hal (Christopher Abbott) è il suo cliente, un ottimo cliente. Fa infatti parte di una ricca famiglia di cui sta per ereditare le fortune e non può più permettersi di avere una pericolosa relazione con una donna che conosce i suoi segreti e le sue perversioni. Così decide di vederla per un’ultima volta e dirle che tra loro è tutto finito, ma il suo tentativo di tagliare i legami gli si potrebbe ritorcere contro. Rebecca è tutt’altro che d’accordo e farà tutto il possibile per far cambiare idea all’uomo.
Una partita a scacchi
Sanctuary è una partita a due, una partita a scacchi. È girato tutto in interni e in unità di tempo e luogo, e quasi in tempo reale, con qualche lievissima ellissi narrativa. È un film che potrebbe essere benissimo una piece teatrale, un’opera che sarebbe piaciuta a Polański, come il suo Venere in pelliccia o un Carnage con due soli attori. Oppure potrebbe essere Secretary ma a parti invertite. Ci parla dei ruoli che ognuno di noi ha nella vita, e di quelli che possiamo provare ad assumere per essere altro da noi, come in una recita. Così nell’arco di due ore passano davanti a noi dominio, affetto, complicità, odio, in un gioco delle parti che ribalta di continuo le carte in tavola. E quindi anche la nostra percezione. Per dare movimento a un film che è un passo a due in un interno, la regia gioca con le inquadrature, con i primi e primissimi piani, sui volti come sulle mani. Gioca con i colori, prendendo spunto da alcuni particolari delle scenografie per virare a volte sul rosa a volte sul rosso. Riprende la scena da inquadrature insolite, dall’alto, o da lontano.
Una riflessione sul lavoro dell’attore
Ma Sanctuary è anche una riflessione sul lavoro dell’attore, sulla recitazione, che è un lavoro fatto tutto sull’espressività, sul tono di voce, sul modo in cui si porge la battuta. È esemplare, in questo senso, la scena in cui Margaret Qualley usa le parole “giuro fedeltà alla Costituzione degli Stati Uniti”, parole sentite tante volte, in ogni giuramento, e solitamente pronunciate in modo serioso e solenne. Ma l’attrice le recita con un tono di voce sensuale e languido che sembra voler dire tutt’altro. È il lavoro dell’attore. E in questo senso Sanctuary è prima di tutto una prova di bravura da parte di Margaret Qualley. Finora l’avevamo vista in dei film in cui manteneva lo stesso registro dall’inizio alla fine. Qui, nel giro di 96 minuti, riesce ad essere ogni cosa: dura, complice, suadente, perfida, urticante, pericolosa, innamorata.
Un gioco troppo cerebrale
Quel gioco, però, visto con gli occhi del pubblico, non è completamente convincente. Ci sembra pretestuoso, troppo cerebrale. Un continuo saliscendi di situazioni, cambi di campo, svolte forzate. Una sceneggiatura che sembra puntare più a spiazzare continuamente più che a procedere in maniera omogenea. E che finisce come una commedia da Guerra dei Sessi anni Quaranta, senza esserlo mai stata davvero. La cosa bella del cinema è che riesce a farti entrare nelle vite degli altri, anche in quelle di chi crediamo essere lontanissimo da noi. Ma per farlo, serve un appiglio, una porta d’ingresso e una chiave per aprirla, un invito ad entrare. Tutto questo in Sanctuary non c’è mai. E allora quei due personaggi non ci appaiono mai delle persone, ma delle semplici pedine mosse dal deus ex machina sul tavolo da gioco. Scusateci se abbiamo nominato Polański invano.
La recensione in breve
Come vi abbiamo spiegato nella recensione di Sanctuary, si tratta di una storia che parla di giochi di seduzione e di potere, ma che una sceneggiatura troppo cerebrale e costruita non rende mai vibrante. È una prova di bravura per Margaret Qualley, ed è lei che vale il prezzo del biglietto.
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Voto CinemaSerieTv