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Home » Personaggi » Giacomo Leopardi, le cause della sua gobba che diede origine ad altri problemi fisici

Giacomo Leopardi, le cause della sua gobba che diede origine ad altri problemi fisici

Scopriamo le teorie sulla doppia gobba di Giacomo Leopardi, che avrebbero causato poi altri malesseri invalidanti nel poeta.
Simone FrigerioDi Simone Frigerio7 Gennaio 2025
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Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi
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La figura di Giacomo Leopardi, mitologico ‘poeta del pessimismo’, va di pari passo, nell’opinione pubblica, con la rappresentazione “deforme” (un termine che lo stesso Leopardi utilizzò per descriversi) del suo aspetto fisico: la altrettanto emblematica gobba che, una fra le tante afflizioni subite dal poeta, è divenuta nel tempo da sola simbolo di una vita unicamente destinata a uno “studio matto e disperatissimo”, non sarebbe però semplice conseguenza di ore passate chino sui libri, bensì sintomo di una malattia molto grave, la sindrome di Pott, una sorta di tubercolosi ossea, chiamata anche spondilite, condizione mai correttamente diagnosticata da medici e studiosi coevi, ma già rilevata, pochi decenni dopo, nientemeno che da Giovanni Pascoli; una diagnosi successivamente confermata, in uno studio del 2005, dai pediatri Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece.

A popolarizzare questa diagnosi fu però in particolare il critico letterario Pietro Citati che, nella sua celeberrima biografia del poeta recanatese descrive con minuzia di particolare le cause e il novero dei disturbi psico-somatici di Leopardi (citiamo da Leopardi, Adelphi, 2011, cap. 2). Va sottolineato come naturalmente queste conclusioni non abbiano valore medico di alcun tipo

“I medici del diciannovesimo secolo avevano torto: Leopardi non diventò gobbo a causa del rachitismo. La sua malattia era infinitamente più grave e complicata: la tubercolosi ossea (o «morbo di Pott»), come per primo suppose Giovanni Pascoli: […] In una data che non possiamo precisare, il suo corpo cominciò a non crescere più: la statura si fermò a 1 metro e 41 centimetri: la parte alta rimase esilissima; i femori e le gambe si svilupparono, mentre due grosse gibbosità si formarono sia nella parte anteriore sia in quella posteriore del corpo.”
Attorno a queste gobbe si sviluppò il mostruoso sistema della tubercolosi. I nomi delle malattie si accumulano come in un’enciclopedia degli orrori: impotenza (mentre i desideri erotici accrescevano la loro forza), oftalmia, lacrimazione, stitichezza, disturbi dell’apparato digerente e del basso ventre, insufficienza respiratoria, reumi di testa, di gola e di petto, emorragia al naso, asma, idropisìa, bronchite, dolori addominali, gonfiore delle ginocchia e delle caviglie, versamento pleurico, inattività ghiandolare, acutissima sensazione di freddo d’inverno, per via della debolezza cardiocircolatoria”

Ritratto di Giacomo Leopardi in punto di morte
Ritratto di Giacomo Leopardi in punto di morte

Ad accompagnare le difficoltà fisiche, comparirebbe poi in Leopardi quella che Citati chiama depressione psicotica, una condizione che, col nome generico di ‘nevrastenia’, veniva considerata, dai contemporanei di Leopardi, causa, e non piuttosto, conseguenza delle sue afflizioni fisiologiche

“Oltre che dalla tubercolosi ossea, Leopardi era torturato da un altro sistema molto più misterioso: la depressione psicotica. Capisco le obiezioni: come è possibile tentare un esame neurologico, affacciando interpretazioni e ipotesi, sulla base di lettere di centonovant’anni fa? Alcune lettere scritte a Pietro Giordani nel 1817 non lasciano dubbi. In una lettera del 30 aprile, Leopardi parlava di un’«ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora», di una «notte fittissima, e orribile», di un «veleno» che lo aveva torturato per sei lunghissimi mesi all’inizio del 1817. Dormiva a lungo, si alzava la mattina tardi, poiché amava più il dormire che il vegliare: poi si metteva immediatamente a passeggiare, in casa o fuori, e passeggiava senza aprire mai bocca o vedere libro, fino all’ora di pranzo. Dopo il pranzo, passeggiava sempre. […]
Leopardi parlava dell’esperienza depressiva come di un pensiero. Questo pensiero, espresso al solito con una mirabile trascrizione fisica, «divora», «lima», «crucia», «martirizza», rende «infelice»: sopratutto possiede, perché «m’ha intieramente in balia». Non si muove, non si sposta: è lì, fisso, stabile, presente; senz’altro contenuto che questa stessa presenza, che questa fissità atroce, che questi occhi che non cessano mai di guardare se stesso.

D’altra parte, il medico milanese E.P. Sganzerla, in ‘Malattia e morte di Giacomo Leopardi’, (Booktime, 2016) rigetta in blocco la diagnosi di spondilite, rifiutando anche di parlare di depressione; il chirurgo, da sempre appassionato del genio recanatese, propone invece, sulla base di documenti medici inediti, una diversa soluzione. Citiamo da un’intervista riportata dal magazine dell’Osservatorio Malattie Rare

“Non era un depresso, non era uno sfigato come direbbero i ragazzi di oggi, non era affetto da malattia tubercolare ossea. Ho seguito un metodo di indagine squisitamente clinico, ho analizzato i sintomi di cui parla nelle lettere tra cui disturbi urinari, deformità spinale, disturbi visivi, astenia, gracilità, bassa statura, disturbi intestinali e complicanze polmonari e cardiopolmonari. Piuttosto che pensare a tante diverse patologie ho ricondotto questo quadro ad un comun meccanismo degeneratore. [Leopardi dunque, poteva essere affetto da una rara malattia genetica, la spondilite anchilopoietica giovanile].
Dalle lettere sappiamo che Leopardi non è nato gracile e gobbo, anzi il fratello Carlo lo descrive come un bambino vivace e leader nei giochi.
La sua malattia ha influenzato i tratti caratteriali, ma non si può certo parlare di depressione in un uomo che, come Leopardi, viaggiò molto fino alla fine dei suoi giorni e continuò a creare moltissimo. Aveva tanti progetti da realizzare ed ebbe sempre il coraggio di proiettare il suo sguardo oltre gli ostacoli”.

Altre ipotesi, meno fortunate nella critica, hanno parlato di diabete, celiachia, o vari disturbi cifo-scoliotici: di pochissima attendibilità, infine, l’ipotesi, paventata dall’amico Antonio Ranieri, secondo cui Leopardi fosse affetto da sifilide.

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