Jean Tatlock, psichiatra statunitense, è morta suicida, a soli 30 anni d’età, a causa di un forte stato depressivo. Nel pomeriggio del 5 gennaio 1944, il corpo esanime della donna, nota per essere stata l’amante di Robert Oppenheimer, fu rinvenuto dal padre nel bagno del suo appartamento, con la testa parzialmente immersa nell’acqua della vasca. Accanto, un biglietto d’addio, non firmato, che recitava: “Tutto quanto mi disgusta; a tutti coloro che mi hanno voluto e hanno voluto aiutarmi, pieni d’amore e di coraggio, dico che volevo vivere, volevo dare… ma sono rimasta come congelata… ho cercato con tutta me stessa di capire, ma non ce l’ho fatta… per tutta la mia intera vita sarei stata un fastidio. Almeno mi è stata data la possibilità di liberare questo mondo tribolato dal peso di un’anima paralizzata“.
L’inchiesta condotta dal medico legale stabilì che la morte di Tatlock era avvenuta per “edema polmonare acuto, con congestione polmonare”, successivo ad annegamento; nel suo organismo furono trovate tracce di idrato di cloralio, un comune sedativo. Prima di morire, la donna aveva assunto anche dei barbiturici, seppur non in dose letale; l’ora della morte fu fissata attorno alle 16.30 del 4 gennaio. I resti della donna, dopo la cerimonia funebre, furono cremati. Fra le prime persone a essere messe al corrente della morte di Tatlock, vi fu J. Edgar Hoover, direttore generale del FBI; a causa delle sue simpatie politiche di sinistra, infatti, la donna era sotto sorveglianza telefonica. Allo stesso modo, la notizia raggiunse presto anche Robert Oppenheimer, allora confinato nel laboratorio segreto di Los Alamos, nel New Mexico, alle prese con il Progetto Manhattan; secondo alcune testimonianze, dopo aver ricevuto la notizia, il fisico, scuro in volto, andò a fare una lunga passeggiata lungo le colline circostanti il piccolo villaggio.
Jean Tatlock e Robert Hoppenheimer si erano conosciuti nel 1936 a Berkeley, dove Oppenheimer ricopriva la cattedra di Fisica e Tatlock era impegnata in alcuni corsi post-laurea; a farli conoscere fu Mary Ellen Washburn, proprietaria dell’appartamento in cui Oppenheimer risiedeva. La donna, simpatizzante comunista, aveva organizzato una raccolta fondi per le forze rivoluzionarie impegnate nella guerra civile spagnola. I due iniziarono a frequentarsi, e nacque una storia d’amore appassionata e tormentata. Lungo il corso della relazione, Oppenheimer chiese due volte a Jean di sposarlo, ma lei rifiutò: “Non credo di essere mai stato in grado di darle ciò che cercava”, scriverà poi il fisico in una lettera del 1954. Dopo anni di rapporti difficili, nel 1939 Jean chiuse la relazione con Robert che, l’anno successivo, sposò Kitty Harrison, giovane vedova.
Il matrimonio, però, non avrebbe posto fine agli incontri tra i due amanti; Oppenheimer, fra il 1939 e il 1943, avrebbe fatto visita all’amante, almeno due volte l’anno; nel 1941, i due trascorsero addirittura il Capodanno insieme, e successivamente sarebbero stati visti insieme più volte. Nel 1943, poi, a metà giugno, di ritorno a Berkeley da Los Alamos per una visita, Robert portò Jean fuori a cena; i due avrebbero poi passato la notte insieme, nell’appartamento di lei a S. Francisco. A dare testimonianza all’accaduto, il rapporto di sorveglianza trasmesso al FBI dai militari; dopo una veloce cena in una tavola calda, i due, in atteggiamenti intimi e affettuosi, andarono all’auto di lei, una Plymouth verde, per poi recarsi al 1405 di Montgomery Street, dove Tatlock viveva. Il giorno successivo, dopo un pranzo insieme, Jean accompagnò Robert all’aeroporto, dove il fisico prese un volo di ritorno per il New Mexico. Anni dopo, interrogato sulle ragioni di quell’incontro, Oppenheimer avrebbe detto: “Lei mi amava ancora”. I due non si sarebbero mai più visti.
Jean Tatlock, nel 1941 aveva conseguito la laurea in Psichiatria a Stanford, una delle prime donne a completare questo percorso. Durante le sessioni di psicoterapia, obbligatorie per il completamento della formazione, la donna aveva più volte espresso incertezza riguardo al proprio orientamento sessuale. In una lettera a un’amica, si legge: “Per un periodo ho creduto di essere omosessuale e, in un certo senso, mi sento costretta in qualche modo a credere di esserlo, ma, invero, a rigor di logica, so di non esserlo, per via dell’assenza di mascolinità in me“; è bene ricordare che l’omosessualità, all’epoca, soprattutto dalla prospettiva della psicoanalisi di stampo freudiano, era vista come una condizione patologica, una devianza da superare.