Nel febbraio del 1994, pochi mesi prima di essere ucciso da un altro detenuto, Jeffrey Dahmer incontrò Stone Philips della NBC nel carcere di massima sicurezza in cui era rinchiuso e nella sua ultima intervista raccontò quando aveva iniziato ad avere i primi impulsi omicidi, perché si era trasformato in un serial killer ed il motivo per cui aveva divorato le sue vittime. Nella stessa occasione furono intervistati anche i genitori del Cannibale di Milwaukee e si parlò del famigerato episodio della scatola, che lascia intuire i possibili sospetti del padre di Dahmer nei confronti di suo figlio. Attenzione: l’articolo che segue contiene descrizioni di scene particolarmente violente e fantasie macabre che potrebbero turbare i lettori più sensibili.
Nella prima parte dello speciale video, Stone Philips incontrò i genitori di Jeffrey Dahmer. Il padre Lionel Dahmer raccontò al giornalista che da adolescente aveva anche lui dei pensieri violenti. “Quando ero bullizzato mi svegliavo la mattina e avevo questi sentimenti che avrei voluto far del male alle persone che mi avevano ferito”. Il padre temeva di aver trasmesso geneticamente queste ossessioni al figlio. Inoltre, in più occasioni l’uomo ha raccontato che all’età di quattro anni Jeffrey fu sottoposto ad un intervento per un’ernia e ha espresso il timore che l’anestesia potrebbe avergli procurato danni al cervello. La madre, Joyce Annette, riteneva invece che suo figlio da bambino fosse come tutti gli altri: “Voglio pensare che se avessi notato che in lui c’era qualcosa che non andava, avrei fatto qualcosa”
Stone Philips intervistò poi Jeffrey Dahmer chiedendogli del rapporto con il padre. “Non ho mai comunicato troppo con mio padre. Parlavamo di cose superficiali, mai avuto una conversazione su quello che succedeva, su come andavano le cose” rispose il serial killer “Forse non l’abbiamo mai fatto perché da quando avevo 15 anni non potevo condividere i miei pensieri con nessuno”.
Come teenager c’erano molte cose che Jeff non voleva condividere con i suoi genitori, uno degli argomenti off limits riguardava proprio la sua omosessualità “Non sapevo molto di me stesso ma sapevo che era una cosa che dovevo tenere dentro di me e che non dovevo parlarne con nessuno. Non ho mai parlato dei miei problemi sessuali con nessuno”. La famiglia Dahmer era particolarmente bigotta e se il padre avesse saputo dell’orientamento sessuale di Jeffrey non avrebbe esitato ad “inserirlo in un programma per fargli cambiare idea. Se credi alla parola di Dio, come io credo, allora tutto ciò che è peccato è ripugnante“.
Successivamente, i litigi tra i suoi genitori hanno spinto Dahmer ad isolarsi ulteriormente: “Mi sono chiuso in me stesso per scappare dai problemi che c’erano a casa, ho iniziato a vivere nel mio mondo fatto di fantasie. Quando le cose a casa peggioravano mi rifugiavo in quel mondo”.
Queste fantasie sessuali col tempo si sono fatte sempre più violente, caratterizzate dall’esigenza di voler controllare e possedere le sue vittime: “Credo che mi fossi creato un mio mondo in cui avevo l’ultima parola” – spiegò il serial killer – “in cui potevo controllare completamente una persona che trovavo fisicamente attraente e tenerla con me il più a lungo possibile, anche se ciò significava tenerne solo una parte”, disse, riferendosi alle parti del corpo delle sue vittime mutilate e ritrovate dalla polizia.
Durante l’intervista Jeffrey Dahmer spiegò di essere scivolato verso questo mondo fatto di pensieri ossessivi e oscure fantasie durante l’adolescenza: ”Penso che il punto di svolta sia stato intorno ai 14 o 15 anni. In quel periodo ho iniziato ad avere pensieri ossessivi di violenza mescolata al sesso ed è andata sempre peggio. Non sapevo come dirlo a qualcuno, quindi non l’ho fatto, ho semplicemente tenuto tutto dentro di me”.
Inoltre, in quel periodo Jeff iniziò a raccogliere carcasse di animali per strada, per portarli a casa e sezionarli. “Nel tagliare gli animali provavo piacere, ma non sessuale“. Sempre intorno a quest’età Jeffrey iniziò a nascondersi dietro ai cespugli fantasticando di aggredire chi faceva joggin. Pian piano le sue fantasie si sono spostate dagli animali agli uomini.
A diciotto anni Jeffrey, già alle prese con problemi di alcolismo, avvicinò un autostoppista di nome Steven Hicks e lo portò a casa. I suoi genitori avevano divorziato da poco e il giovane viveva da solo. Sul suo primo omicidio raccontò: “Avrei voluto andare avanti con la macchina, passare oltre, invece mi sono mi sono fermato per farlo salire” racconta Jeff “Cosa è successo dopo che l’ho portato a casa? Abbiamo parlato, bevuto qualcosa, l’ho messo fuori combattimento, era la prima volta”.
“Da quel momento in poi ho provato a fermarmi”, raccontò Jeffrey, infatti per un periodo di tempo non ha più ucciso, poi le sue violente compulsioni sono tornate. Il serial killer era a casa di sua nonna nel Milwaukee, e una notte girando per i bar incontrò un giovane e lo portò in un hotel. Dahmer raccontò così il suo secondo omicidio: “Gli ho messo dei sonniferi nel suo drink per fargli perdere i sensi. Quando mi sono svegliato, la mattina dopo, avevo gli avambracci contusi e anche il suo petto era pieno di contusioni. Aveva il sangue che gli usciva dalla bocca, era riverso dal lato del letto. Non ho memoria di averlo picchiato a morte ma devo averlo fatto ed è allora che tutto è ricominciato”.
Una volta ricominciato non riuscì più a fermarsi: “L’ossessione mi ha travolto, il mio unico obiettivo era trovare il ragazzo più bello, andavo nei bagni pubblici, nei bar, nei centri commerciali”. L’omicida ribadì che la razza delle vittime non era rilevante, anche se la maggior parte di loro erano giovani neri: “La loro razza non mi importava. I primi due giovani che ho ucciso erano bianchi, il terzo giovane era nativo americano e il quarto e il quinto erano ispanici, quindi la razza non c’entrava niente, guardavo solo il loro aspetto fisico”.
Ad un certo punto della sua carriera di serial killer, Jeff iniziò a sperimentare una strana tecnica per lobotomizzare le sue vittime, questo perché l’omicidio in sé non lo eccitava, ma gli dava piacere avere il pieno controllo su di loro. “L’omicidio era la parte che mi eccitava di meno, non mi piaceva uccidere, per questo ho provato a creare degli zombie viventi con l’acido muriatico e il trapano”. Uno degli esperimenti per creare uno “zombie vivente” è stato condotto su un ragazzo di quattordici anni: Jeffrey gli perforò la testa e gli versò dell’acido muriatico nel foro che aveva praticato in un maldestro tentativo di lobotomizzarlo, ma nessuna delle vittime è sopravvissuta a questo trattamento. “Volevo solo delle persone sotto il mio controllo per farci quello che volevo, non è facile da dire ma questo è stato il movente per quello che ho fatto”.
“Col passare del tempo ho capito che c’era una motivazione sessuale in quello che facevo, anche nello smembramento dei corpi” disse Jeffrey Dahmer rispondendo ad una domanda di Stone Philips “Ho iniziato a salvare gli scheletri e preservare altre parti del corpo. Una cosa ha portato all’altra, ci sono voluti comportamenti sempre più devianti per soddisfare i miei bisogni”. Per il serial killer, conservare questi trofei era un altro modo di esercitare il controllo sulle sue vittime, possederle per sempre.
Jeffrey Dahmer è conosciuto come Il Cannibale di Milwaukee e nella sua ultima intervista spiegò perché aveva mangiato le sue vittime e anche qui c’entra l’ossessione di possederle per sempre, facendole diventare parte di lui. “Il cannibalismo mi ha fatto sentire come se quelle persone fossero una parte permanente di me, questo è il vero motivo per cui l’ho fatto, oltre alla semplice curiosità su come sarebbe stato. Il cannibalismo me li faceva sentire parte di me e farlo mi ha dato una soddisfazione sessuale”.
Prima di chiudere facciamo una piccola parentesi sul cosiddetto episodio della scatola, che fu raccontato in questa intervista e che risale al 1989, quando Jeffrey aveva già ucciso almeno cinque giovani. Un aneddoto che lascia intuire i possibili sospetti del padre di Jeffrey Dahmer nei confronti del figlio. Un giorno Lionel andò a trovare Jeffrey e notò una scatola in casa. Quando chiese a Jeff di vederne il contenuto, lui si rifiutò di aprirla e il padre gli disse: “Ok, la apriamo domani e poi ce ne sbarazziamo, qualsiasi cosa ci sia dentro” Nella scatola c’erano “La testa mummificata e i genitali di un giovane che avevo incontrato in uno dei bar giù a Milwaukee”. L’assassino tuttavia ha ribadito di non aver mai aperto la scatola in presenza di suo padre.
Jeffrey Dahmer per i suoi omicidi non ha cercato scuse: “Credo che sia sbagliato che le persone che commettono crimini cerchino di scaricare la colpa su qualcun altro, sui loro genitori, sulla loro educazione o sulle circostanze di vita”. E poi: “Sono contento che sia finita. Per le famiglie delle vittime sembreranno parole banali e vuote ma non so come esprimere il rammarico, il dolore che provo per quello che ho fatto a loro e ai loro figli. Non riesco a trovare le parole giuste”. Per quanto riguarda gli impulsi che lo hanno spinto ad uccidere diciassette persone ammette: “Non vanno mai via completamente. Credo che dovrò conviverci per il resto della mia vita”.