Ai tempi de Il Piccolo Diavolo, uscito nel 1988, Roberto Benigni rilasciò delle interviste sul film nel suo stile, spingendosi anche a parlare del suo nuovo lavoro, dicendo cose strampalate e fuorvianti, e in un inglese maccheronico. Le interviste, che l’attore e regista concesse in sala di montaggio, sono anche l’occasione per parlare del significato della sua commedia e, più in generale, di cinema.
“Ho rivisto le riprese, facevano schifo. Le ho strappate, ci ho sputato sopra e le ho fatte calpestare anche da un amico. Mi sono vergognato, ho pianto tutta la notte.”.
Così l’attore e regista ha raccontato in due interviste a Enrico Magrelli, una in italiano e una in inglese, la folle lavorazione del film.
Benigni si è seduto accanto allo sceneggiatore Vincenzo Cerami “a un tipico tavolo da sceneggiatura, dove la sera ci si sdraia e si dorme”, affrontando ostacoli ortografici, penne stilografiche ribelli e accenti francesi. Ne è nata una storia imprevedibile che oscilla tra filosofia, esoterismo e ironia demenziale: “Un film sui problemi, un piccolo soggetto su un ottico che perde la vista, abita in un attico e va al mercato ittico a comprare pesci che non vede.”
Benigni racconta la ‘trama’ del film in modo surreale: il protagonista, appunto ottico cieco, diventa il simbolo di un’umanità spaesata. Scivola, inciampa e muore sulle scale. Sua madre, anche lei cieca, lo trova senza vita e maledice il mondo. Un inquilino, testimone indifferente, chiede comunque il pagamento dell’affitto. Una parabola tragicomica che diventa quasi documentario: “È una storia di veronesi ingobbiti sulla cinquantina che guardano il mondo da sotto, come se lo vedessero dalla prospettiva della sconfitta.”

In un’intervista rilasciata in inglese (in un registro a tratti assurdo), Benigni racconta poi:
“Little Devil is a metaphoric thing in the title. It’s about a little devil who escapes from hell and ends up living with a priest, like Pinocchio and Geppetto.”
Il piccolo diavolo non parla, ma “parla benissimo inglese, è l’unica cosa che sa fare.”
Ad affiancare Benigni nel ruolo dell’esorcista c’è Walter Matthau, attore leggendario, scelto dopo l’indisponibilità (e nel caso di Lee Marvin, il decesso) di altri interpreti. “Gli ho detto: se sei vivo e libero, vieni,” ironizza Benigni. L’attore americano accettò il ruolo anche per motivi personali:
“Suo fratello è un ottico, lui stesso è astigmatico. Ha detto che questo film lo tocca da vicino, che parla della sua gente: i presbiti, gli abbandonati.”
Benigni recita e dirige con naturalezza, rivela anche come si è ritrovato dietro la macchina da presa: “
“Il film aveva bisogno di un regista e di un attore, ma la produzione non voleva pagarli entrambi. Allora hanno detto: arrangiati. Io volevo un regista, non c’era. Volevo un attore, nemmeno. E così mi è toccato farli tutti e due. Non è che volevo, ma era un problema di soldi”
Il set? Un teatro di invenzioni costanti. Per dare il via alle riprese, Benigni usava una formula segreta: “Enrico Fermi, Truman Capote, Geronimo!”. Tre nomi – uno scienziato, uno scrittore, un guerriero nativo – trasformati in comandi magici per un attore americano ignaro della lingua italiana. “In Italia ‘fermi’ significa ‘stop’, ma Matthau pensava che fosse un omaggio a Enrico Fermi.”

Il tono surreale si spinge fino a una scena in cui Benigni gioca a scacchi con la morte. “Le chiedo cos’è la vita. Lei risponde: ‘Sei davvero un idiota a chiederlo a me, io sono la morte’. Allora cambio partner e arriva la vita.” In un’altra sequenza compare il fantasma di Heidegger, che disapprova i flipper moderni e scompare dicendo: “Io preferisco i jukebox.”
Nonostante il delirio apparente, Il piccolo diavolo, ci dice Benigni, nasconde un impianto riflessivo profondo: è una riflessione sul senso dell’immagine, sulla perdita di identità e sulla solitudine. “Il cinema è visione, e l’ottico cieco è una metafora di questo fallimento della visione,” spiega Benigni. La regia, volutamente bassa e obliqua, vuole restituire la prospettiva dello sguardo spezzato: “Come se tutto fosse visto da un uomo caduto.”
Accanto a Matthau, troviamo Nicoletta Braschi, moglie di Benigni, nei panni della protagonista femminile:
“Ha un volto nuovo, perfetto per una storia così. È già stata con me e Jim Jarmusch in Down by Law.”
C’è spazio anche per Stefania Sandrelli, scelta – a suo dire – dopo un sorprendente cameo nell’Ultimo Imperatore di Bertolucci (in realtà non ha mai recitato in quel film)
“Faceva la madre del piccolo imperatore cinese. Parlava cinese! L’ho inseguita a Hong Kong dove si faceva chiamare Mutanaca. L’ho trovata, e tra le lacrime mi ha detto: torno in Italia.”
La fotografia è firmata da Robby Müller, storico collaboratore di Wim Wenders e Jim Jarmusch. Benigni lo celebra con entusiasmo:
“È il miglior direttore della fotografia del mondo. Storaro? È daltonico, non sa cos’è il bianco e nero. Robby invece sì, lui mette la luce, la camera… fa solo il fotografo, non porta nemmeno i panini sul set!”
Nonostante le apparenze, Il piccolo diavolo ha sempre puntato in alto in alto. “Non punto all’Oscar, ma al Nobel. Sei o sette. Il mio amico svedese, uno della giuria, mi ha detto: ‘Hai buone possibilità.’ E ha riattaccato incazzato.”