I fan non avevano accolto nel migliore dei modi la notizia di uno spin-off di Breaking Bad nell’aprile del 2013, quando gli autori Vince Gilligan, che già aveva accennato a questa possibilità un anno prima, e Peter Gould hanno annunciato che Better Call Saul era già in fase di sviluppo. Nella memoria collettiva l’immagine del Walter White portato magnificamente in scena da Bryan Cranston e del suo pupillo Jesse Pinkman, interpretato da Aaron Paul, erano cose vivide e ferite ancora fresche. E il fan che saluta personaggi di quel peso può accettare, si sa, di bearsi del ricordo e persino del trauma, ma non di vedere aperto un nuovo capitolo che non contempli l’esistenza e la centralità di quei personaggi.
Better Call Saul era una sfida interessante: sarebbe stato accolto come un prolungamento (inverso, in quanto prequel) di una storia amata o marchiato come un’opera lucrativa e superflua? La risposta è stata data dalla qualità di uno show che in pochi anni ha saputo far appassionare una solidissima schiera di spettatori a Saul Goodman, personaggio laterale ma fondamentale dell’universo di Gilligan che ha appena avuto il suo compimento nel finale di serie.
Better Call Saul: il prestige spin-off
Non c’è dubbio che quella dello spin-off sia, di per sé, un’operazione guidata da incentivi economici – per quanto discussa, l’idea di una serie dedicata a Saul Goodman non ha mai ottenuto un effetto opposto alla curiosità – e che il rapporto con l’originale sia di tipo perlopiù imitativo, ma è importante sottolineare che Better Call Saul vede la luce nell’epoca di una rivoluzione televisiva che riguarda, ancora prima delle modalità di fruizione delle opere-prodotti, la natura delle opere stesse. La televisione, non più quella di una volta, è oggi considerata il medium della sperimentazione, il luogo digitale (ormai più fertile di quello cinematografico) in cui è possibile provare e trovare tipi di narrazione innovativi che possano far da nuovi modelli e sostituire quelli obsoleti. Se già Breaking Bad era una serie germogliata da influssi provenienti da opere e generi cinematografici, Better Call Saul è il prestige drama per eccellenza, o il prestige spin-off (per usare la denominazione di Jason Mittell) ideale, in grado di unire le due tendenze standard: la tipica televisione più commerciale sposa la nuova televisione di prestigio artistico.
Come Saul Goodman diventa Jimmy McGill
Questo è riscontrabile nella radicalità dell’intervento compiuto da Gilligan su Saul Goodman e nelle strategie utilizzate per far sì che il tipo Saul, avvocato canaglia memorabile ma derivato da tipi cinematografici preesistenti e simili a lui, diventasse un personaggio rotondo. La prima strategia è il cambio di nome: non c’è nessun Saul Goodman ma, al suo posto, conosciamo James McGill. E le cose si fanno immediatamente interessanti, dal momento che la rappresentazione di James è quella non di un avvocatuccio bensì di un avvocato in divenire, ed eternamente bloccato nel processo. O di un avvocato in potenza, più precisamente.
L’impedimento principale sembrerebbe essere, in un primo momento, il fratello Charles “Chuck” McGill, brillante avvocato e socio fondatore della HHM che indossa le vesti di una sorta di carismatico villain della giustizia. Nella perfezione di questo quadro Jimmy interpreterebbe l’eroe e il fratello invidioso (dei rapporti idilliaci che Jimmy è riuscito a ottenere con i genitori, nonostante la sua mediocrità) sarebbe l’ostacolo nel suo epico viaggio verso la legge. La verità è che l’empatia stabilita con Jimmy annebbia la vista dello spettatore, impedendogli di riconoscere che l’unico giudizio perfettamente fondato è proprio quello di Chuck, avvezzo alla condotta di “slippin’ Jimmy” e ai suoi effetti sugli altri. Questo giudizio è pronto a emergere ogni volta che i flashforward della sesta stagione, in bianco e nero, ci trasportano in avanti, nel presente post-Breaking Bad in cui Jimmy e Saul sono stati entrambi rimpiazzati da Gene Takavic, manager di un Cinnabon store a Omaha, Nebraska.
Le tre personalità di Saul
Jimmy e Saul coesistono come realtà parallele fra cui la personalità del protagonista riesce a scindersi, almeno finché Kim Wexler stabilisce una direzione per entrambi. Saul sembra sovrastare Jimmy proprio nel momento in cui Kim prepara le valigie per lasciarsi alle spalle il male che ha compiuto, la versione di sé che ricadeva verso l’antieroismo e persino la professione di avvocato. Gilligan non dedica neppure più del dovuto a descrivere il lato umano di Saul perché interamente costretto e inglobato nella dimensione asfissiante di avvocato del crimine (motivo per cui, dal momento in cui Kim se ne allontana, non lo vediamo mai lasciare il suo ridicolo studio caricaturale, riflesso della sua attività e personalità).
Gene Takavic e i residui di Jimmy
Gene Takavic, lo abbiamo capito nell’ultima stagione, non è Jimmy e neppure Saul. La sua vita in bianco e nero, lontano da Kim, lo porta a compiere azioni che si collocano ben oltre la soglia di ciò che le altre versioni del personaggio avrebbero umanamente tollerato: anche scegliendo di ignorare quel che è accaduto con Marion, fondo toccato nel penultimo episodio, rimarrebbe comunque quel piano criminale che Gene porta avanti sfruttando le uniche persone con cui ha ormai un legame, senza contare l’agghiacciante lucidità di calcolo con cui accalappia ognuna delle sue vittime. Per comprendere qual è il filo conduttore che lega le tre identità di Saul è necessario procedere per esclusione di moralità proprio a partire da Gene: mentre Saul è il residuo professionale di Jimmy McGill, sempre eticamente discutibile ma disposto a correggere la rotta laddove possibile (e laddove urgente), Gene ne è il residuo umano.
La rilevanza di un antieroe
Ma allora quale storia racconta Better Call Saul? È la tragedia di Jimmy, intrappolato nell’istinto di autodistruzione annunciato da “slippin’ Jimmy”, oppure è la storia di Gene, che rompe le barriere inibenti di Jimmy? La risposta è nel tredicesimo episodio della sesta stagione, scritto magistralmente da Peter Gould. O meglio: era facile comprendere che Gene fosse una creazione del “vacuum cleaner”, una mera riproduzione artificiale pensata da Jimmy stesso per sopravvivere all’esilio. Non è un caso che Gene Takavic viva di menzogne: è così inattendibile che non solo non riesce a fare del male concreto quando potrebbe (e lo spettatore ringrazia), ma che, addirittura, inscena la sua frode in senso lato attraverso una “rappresentazione” della stessa, una frode vera e propria in cui le amicizie sono simulate e finalizzate alla buona riuscita di una truffa. E la scelta del bianco e nero, al di là del senso di solitudine che esprime, è eloquente in tal senso.
Il finale di stagione riassesta i ruoli che il turbine di vicende connesse alla criminalità aveva scompaginato. Credevamo che Kim fosse la possibile Walter White di Better Call Saul, ma la sua confessione porta Saul a voler rivendicare l’importanza della sua parte nello schema. E che Chuck fosse un fratello crudele. Che Gene avesse inspirato ogni palpito di Jimmy e che Saul fosse l’avvocatuccio di Breaking Bad, prima di sentirlo tuonare in aula di tribunale una verità incontrovertibile: senza di lui Walter White non l’avrebbe mai fatta franca. Senza di lui lo show di Walter White non sarebbe durato un’ora in più. Un’avocazione di meriti che conferisce a Saul tutta la rilevanza che si deve a un antieroe e lo porta al suo epilogo, l’unico esito possibile nella lunga lotta con e contro legge (ed è col nome di Saul che tutti lo ricorderanno, fuori e dentro lo schermo) ma, al contempo, incredibile catarsi e gesto che riapre finalmente la porta a Jimmy, prima di chiuderla per sempre.