La serie: Dostoevskij, 2024. Regia: Damiano e Fabio D’Innocenzo. Genere: Drammatico, giallo. Cast: Filippo Timi, Gabriel Montesi, Carlotta Gamba, Federico Vanni. Durata: 6 episodi/50 minuti circa. Dove l’abbiamo visto: su Sky, in anteprima stampa.
Trama: Enzo Vitello è un poliziotto tormentato dal difficile rapporto con sua figlia Ambra, abbandonata da tempo e sulla via della tossicodipendenza. Presto dovrà confrontarsi con un serial killer, chiamato da lui e dai suoi colleghi Dostoevskij, questo perché dopo aver ucciso lascia dei messaggi con riflessioni sul senso della vita.
A chi è consigliata: Agli appassionati di detective stories alla True Detective, con grande attenzione alla costruzione di un’atmosfera protagonista tanto quanto i personaggi.
Damiano e Fabio D’Innocenzo non sono mai scesi a compromessi: da La terra dell’abbastanza ad America Latina, passando per quel Favolacce che ne sancì la consacrazione al Festival del Cinema di Berlino, hanno raccontato con la desiderata visceralità tensioni con cui il pubblico difficilmente vuole confrontarsi. Con la stessa ambizione hanno presentato Dostoevskij che, dopo l’anteprima alla Berlinale 2024, approda finalmente su Sky. Per la prima volta, il duo registico si affaccia su un formato inedito: la serialità. Composta da sei episodi che masticano alternativamente il genere poliziesco e il nichilismo filosofico, Dostoevskij riflette temi cari all’autore russo omonimo: la colpa, il male, la redenzione e la morte come unico punto di fuga da una realtà corrotta.
Caccia a chi?
Filippo Timi è Enzo Vitello, un poliziotto segnato profondamente da un evento traumatico legato alla figlia Ambra. Enzo si ritrova a dare la caccia a un feroce serial killer, soprannominato Dostoevskij per via delle lettere cariche di dettagli macabri che lascia sulle scene del crimine. Ossessionato dai messaggi del killer, il poliziotto intraprende un’indagine solitaria e rischiosa, avvicinandosi sempre più a una sconcertante verità esistenziale.
La serie si sviluppa in un’ambientazione rurale e desolata, l’Agro Pontino, trasformato in un paesaggio quasi infernale. Questo contesto diventa metafora del vuoto esistenziale dei personaggi, che vagano in un mondo sospeso tra il reale e il metafisico. Il senso di morte permea ogni episodio, non solo come evento fisico ma come concetto che invade l’anima dei protagonisti, rendendo la vita stessa un processo di decadimento inevitabile. In questa cornice, il male non è solo un atto criminale, ma un elemento connaturato all’esistenza umana.
La regia dei fratelli D’Innocenzo si distingue per l’uso magistrale di inquadrature suggestive e di un ritmo lento ma ipnotico, che aumenta la tensione emotiva. L’approccio visivo e narrativo crea un’atmosfera opprimente e angosciante, simile a quella di True Detective, con cui la serie condivide il gusto per l’indagine interiore e il confronto con l’oscurità. Tuttavia, alcuni dialoghi sono indeboliti da una scarsa autenticità, risultando a tratti artificiosi e distaccati.
Un’opera respingente ma dal fascino irresistibile
Filippo Timi offre una performance intensa e stratificata nel ruolo di un ispettore tormentato, a cui viene letteralmente riempita la testa di parole in un ambiente in cui gli scambi verbali sono una lingua straniera, mentre Gabriel Montesi e Carlotta Gamba brillano con interpretazioni che conferiscono spessore ai loro personaggi. L’intero cast riesce a bilanciare la cupezza della trama con momenti di rara umanità, mostrando personaggi che lottano per trovare un senso in un mondo privo di speranza.
Un redivivo che passa per i corridoi infernali come se già ne fosse stato inglobato, che tocca la morte in ogni sua forma, che la cerca prima in se stesso e, poi, vi si specchia in ogni angolo della narrazione. Enzo Vitello è un’estensione dell’ambiente che lo circonda, in tutto e per tutto: si muove attraverso spazi luridi, corrotti, che hanno un’incontrovertibile corrispondenza a livello formale. Le voci che sentiamo sono lontane e impostate come quelle dei vecchi noir, la pellicola con cui è girato Dostoevskij ricorda i filmati rinvenuti all’inizio dei found footage.
I D’innocenzo non scendono a compromessi
Il grande merito di Dostoevskij risiede nella sua ambizione: affronta temi complessi con coraggio e senza compromessi, offrendo una riflessione profonda sul senso della vita e della morte. Tuttavia, questa stessa ambizione porta anche a qualche sbavatura. Alcuni spettatori potrebbero trovare il ritmo eccessivamente lento e la narrazione troppo densa di riferimenti filosofici, elementi che rischiano di alienare il pubblico meno avvezzo a questo tipo di contenuti.
Dostoevskij è un’opera che divide: affascinante nella sua cupezza e coraggiosa nel suo approccio: rimane un’esperienza visiva e intellettuale che lascia il segno, soprattutto per chi apprezza un cinema che non ha paura di guardare nell’abisso più nero. Con questa serie, i fratelli D’Innocenzo confermano la loro capacità di creare racconti disturbanti e intensi, spingendo lo spettatore a riflettere sui limiti della condizione umana. In fondo, l’unica motivazione nei delitti è la vita stessa.
La recensione in breve
Ancora una volta, i fratelli D'Innocenzo non hanno paura a sporcarsi le mani, sporcare i propri personaggi e lo stesso pubblico con un racconto che parla con grande precisione dell'umanità anche se, all'apparenza, è proprio di questa che sembrano private le coordinate della storia.
Pro
- I D'Innocenzo dimostrano di padroneggiare brillantemente il concetto di miniserie come estensione del racconto cinematografico
- Un Filippo Timi che ci regala una performance maestosa, senza paura di buttarsi in una storia repellente
Contro
- Alcuni dialoghi risultano artificiosi
- Un tipo di racconto che, inevitabilmente, respinge gran parte del pubblico (anche se è, da un certo punto di vista, proprio la sua intenzione)
- Voto CinemaSerieTv