La serie: La serie Pistol, del 2022. Creata da: Craig Pearce. Cast: Louis Partridge, Thomas Brodie-Sangster,Talulah Riley, Anson Boon, Toby wallace, Maisie Williams, Jacob Slater, Christian Lees.
Genere: biografico, musicale. Durata 50 minuti ca./6 episodi. Dove lo abbiamo visto: su Disney+, in anteprima stampa.
Trama: Una miniserie che racconta l’ascesa e la caduta del celebre gruppo punk rock britannico che negli anni ’70 ha rivoluzionato il panorama musicale mondiale.
“We’re not into music, we’re into chaos”. Non siamo interessati alla musica, siamo interessati al caos. Il manifesto dei Sex Pistols potrebbe stare tutto in questa frase. La recensione di Pistol, la serie tv sui Sex Pistols girata da Danny Boyle, in streaming su Disney+ dall’8 settembre, inizia da qui, ma potrebbe iniziare in molti modi. Perché, nella loro rabbia, nella loro furia primitiva, in quel caos che sembrava avvolgere la loro musica e ogni loro gesto, avevano una grande dote: l’immediatezza.
E la loro arte è fatta di slogan, di frasi ad effetto pronte a stamparsi nella nostra mente come, immediatamente, sulle t-shirt che ai tempi del punk disegnava Vivienne Westwood, artista che, insieme al manager situazionista Malcom McLaren, è inscindibile dalla loro musica. Pensate al “no future” in God Save The Queen, a quel “destroy” in Anarchy In The U.K. Pensi ai Sex Pistols e ti viene immediatamente in mente l’immagine di Johnny Rotten, poi quella di Sid Viciuos.
“La gente guarda solo noi” dice Sid nella serie. Ma Pistol è invece incentrata soprattutto sul fondatore e chitarrista della band, Steve Jones, visto che è basata sulla sua autobiografia Lonely Boy: Tales from a Sex Pistol. Pistol, allora, è un affascinante dietro le quinte del fenomeno Sex Pistols: interessante più che eccitante, filologico più che iconoclasta, scorre piacevolissimo, anche se forse manca quell’irriverenza che servirebbe nel raccontare il punk.
La trama: c’era una volta in King’s Road
La storia è quella che i fan del rock e dei Sex Pistols conosceranno, ma probabilmente non in tutti i particolari. Steve Jones (Toby Wallace) è un ragazzo senza arte né parte, che vive di furtarelli e che ha una band che sembra non andare da nessuna parte. Con lui ci sono Glen Matlock (Christian Lees) e Paul Cook (Jacob Slater). Nel negozio di Vivienne Westwood (Talulah Riley), Sex in King’s Road, incontra Malcom McLaren (Thomas Brodie-Sangster), artista che si propone di fare il manager della sua band, che considera una delle armi con cui fare la sua rivoluzione culturale.
Nella band entreranno prima John Lydon (Anson Boon) rinominato Johnny Rotten, marcio, per via dei suoi denti, come cantante, e poi Sid Vicious (Louis Partridge) al basso, al posto di Matlock. Nel negozio di Vivienne Westwood lavora una giovane commessa con ambizioni artistiche: si chiama Chrissie Hynde (Sydney Chandler), e presto avrà una sua band.
Johnny Rotten, sguaiato e urticante
Non sapevano suonare, è vero. Non sapevano cantare. Johnny Rotten urlava fuori le parole delle canzoni, sguaiato e urticante, come se volesse urlare al mondo l’insoddisfazione, l’apatia, la rabbia di un’intera generazione. Steve Jones, nella prima versione della band, era il cantante, e si è improvvisato chitarrista dopo l’arrivo di Rotten. Sid Vicious ha imparato a suonare il basso pochi giorni prima di andare sul palco.
Tutto questo esce bene dalla serie di Danny Boyle, che racconta in modo efficace quel mix di strategia studiata a tavolino, di casualità e di scontro tra varie anime che è stata l’esplosione dei Sex Pistols. Non la migliore band che l’Inghilterra di metà anni Settanta potesse avere, ma la band di cui probabilmente aveva bisogno, per svegliarla dal torpore in cui era precipitata, per cogliere l’ansia e la rabbia di una generazione che non si sentiva rappresentata da nessuno.
Al posto giusto nel momento giusto. Con un look e una musica completamente nuova, che rompeva gli schemi con il passato, ma che dal passato veniva. E in Pistol è presente il magma da cui è nata l’eruzione Sex Pistols: la musica di Bowie e degli Stooges di Iggy Pop, gli Who e il reggae, i Roxy Music di Brian Ferry. Il fervore culturale, dalla moda della Westwood alle immagini di un giovane cineasta come Julien Temple, che li immortalò per primo e che girò il loro film, The Great Rock And Roll Swindle, Chrissie Hynde e i Pretenders.
Un’immersione totale in un’epoca
Danny Boyle gira tutto questo come se stessimo assistendo alla storia dei Sex Pistols in diretta, in tempo reale, direttamente negli anni Settanta, come se fossimo lì e accendessimo una tivù dell’epoca. Così ecco il formato in 4:3 dell’immagine, il formato “quadrato” degli schermi dell’epoca, quei toni uniformi e tenui (in Inghilterra, negli anni Settanta, tutto era marrone, racconta Jonathan Coe in un suo libro) squarciati dal rosso e nero tipici del punk, quelle immagini sporche, un po’ sgranate e poco definite. Che si fondono alla perfezione con il grande uso di materiale di repertorio che Boyle monta tra una scena e l’altra, per ricreare ulteriormente l’atmosfera di quegli anni. Il risultato è una vera e propria macchina del tempo, un’immersione totale in un’epoca che ha cambiato per sempre la musica e i costumi, e ancora oggi influenza la moda, il rock e anche il cinema.
Il vero film punk di Boyle era Trainspotting
Come abbiamo scritto sopra, forse è tutta questa accuratezza storica, questa attenzione per gli eventi e i particolari, davvero mirabile, a mettere un freno all’opera di Danny Boyle. A tratti ci sembra che il regista sia così attento al fatto che tutto sia a posto da non permettere a quel caos – che come detto è una parte fondamentale del mondo dei Pistols – di liberarsi pienamente.
È forse questo che manca al film di Danny Boyle, e che era presente nel suo Trainspotting, il secondo film che in fondo è il suo Never Mind The Bollocks (il disco d’esordio, e unico album, dei Pistols), sfrontato, irriverente, scorretto, sporco. Era un regista punk, agli esordi, Danny Boyle, e negli anni è diventato un artista completo e versatile, capace di “suonare” qualsiasi genere. Forse Johnny Rotten e compagina avrebbe dovuto raccontarli ai tempi di quel film: perché Mark Renton, Spud, Sick Boy e Begbie, a guardarli in quel film, ci sembravano davvero i Sex Pistols.
Sydney Chandler: è nata una stella?
E poi, quando vedi le serie e i film dedicati alle reockstar ti chiedi sempre: è meglio che gli attori somiglino agli originali o che abbiano un loro carisma? In Pistol i risultati sono altalenanti. Se gli attori che danno il volto a Sid Vicious e Johnny Rotten sono effettivamente molto simili, ma la loro recitazione ci sembra un po’ di maniera, è lo Steve Jones di Toby Wallace ad avere la sensibilità e la complessità per il suo personaggio, che in fondo è quello di un bambino ferito e molestato.
Ma a rubare la scena a tutti, a sorpresa, è la Chrissie Hynde di Sydney Chandler (la figlia di Kyle Chandler, il coach Taylor di Friday Night Lights, appena vista a Venezia in Don’t Worry Darling). In questo caso la somiglianza non è eccessiva (è molto più bella dell’originale), ma c’è l’attitudine. Gli occhi a mandorla e il volto da cerbiatto dell’attrice, il suo corpo sinuoso e slanciato riempiono lo schermo ogni volta che è in scena. Probabilmente è nata una stella. Come i Pretenders di Chrissie Hynde, che vediamo nascere alla fine del film. Così come funziona molto bene Thomas Brodie-Sangster nei panni di Malcom McLaren, somigliante all’originale, ma anche intenso e in grado di darne un grande ritratto.
Bisogna avere un caos dentro di sé per generare una stella danzante
Quegli assassini giovani e sexy, così chiamava McLaren i Sex Pistols, così sono in scena, con le loro t-shirt in cui dicevano “I Hate Pink Floyd” e “Destroy”, con le loro provocazioni e le loro canzoni, poche, grezze, ma potenti come un colpo di pistola dritto al cuore. Piacciano a no, non si può negare che abbiano rappresentato un colpo di spugna al passato, anzi, un colpo di vernice rossa su una camicia bianca o una giacca grigia.
Non c’erano solo loro, ma c’era tutto un mondo, anche se loro sono stati la punta di un iceberg. Assistere a Pistol significa ricordare tutto questo, quello che c’era prima e quello che è venuto dopo. E capire come le giovani generazioni abbiano sempre avuto bisogno dei loro simboli, dei loro suoni, delle loro mode. I ragazzi hanno il caos dentro di sé e hanno bisogno di chi lo rappresenti. Nietzsche diceva che “bisogna avere un caos dentro di sé per generare una stella danzante”. I Sex Pistols ce l’avevano, e quella stella l’hanno generata. Anche se era destinata a brillare per poco.
La recensione in breve
Pistol è un affascinante dietro le quinte del fenomeno Sex Pistols: interessante più che eccitante, filologica più che iconoclasta, la serie scorre piacevolissima, anche se forse manca quell’irriverenza che servirebbe nel raccontare il punk.
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