La serie : The Last of Us. Regia: Jeremy Webb, Ali Abbasi, Neil Druckmann, Peter Hoar, Liza Johnson, Jasmila Zbanic. Cast: Pedro Pascal, Bella Ramsey, Anna Torv, Gabriel Luna, Nick Offerman. Genere: Post-apocalittico/drammatico. Durata: 60-70 minuti ca./9 episodi. Dove l’abbiamo visto: in anteprima stampa.
Trama: Nel 2023 il mondo è piegato da un’inarrestabile epidemia che rende aggressivi e contagiosi gli infetti. Uno sparuto gruppo di sopravvissuti resiste trascinandosi in una quotidianità impregnata di violenza, sospetto e brutalità. Poi nella vita di Joel, padre inaridito dal lutto, ecco arrivare Ellie. Una ragazzina che potrebbe essere una luce di speranza nella disperazione.
Se è vero che anche un orologio rotto segna l’ora giusta due volte al giorno, allora c’è speranza anche nella rovina. Lo sa bene anche un uomo che quell’orologio scheggiato lo ha portato al polso tutto il tempo. Da quando sua figlia glielo ha regalato poco prima dell’apocalisse. Poi le lancette si sono fermate per anni, arrugginite da una sopravvivenza balorda che ha svuotato quell’uomo e l’umanità intera. Anni di cattiveria e violenza. Anni di paura e sospetti. Anni di orologi che servivano solo a ricordarti il padre che eri. Apriamo la nostra recensione di The Last of Us ricordando l’importanza del tempo in questa storia di persone che si trascinano nell’odio e poi trovano di nuovo un senso insperato.
Lo era nello splendido videogioco targato Naughty Dog, che nel 2013 contagiò i cuori della gente con la sua narrazione autentica e verosimile. Lo è oggi, dopo dieci anni, in questa splendida serie tv HBO (in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW dal 16 gennaio) lunga 9 episodi da vivere assieme a Joel ed Ellie. Ovvero le due lancette di quell’orologio. Quelle di colpo iniziano a muoversi ridando valore al tempo da passare assieme a qualcuno. E sì, state tranquilli: anche il nostro tempo passato al loro fianco di valore ne avrà eccome. Perché Craig Mazin (reduce da Chernobyl) e Neil Druckmann (l’autore del videogioco) sono riusciti nell’impresa, perché The Last of Us è una grande serie tv. Uno show coraggioso e saggio, figlio di una trasposizione intelligente. Un prodotto in cui tutto è studiato nei minimi dettagli e niente è lasciato al caso. Come gli ingranaggi di un orologio che all’improvviso funziona alla perfezione.
La trama: cosa resta del mondo
È il 2003 quando il mondo inizia a cadere a pezzi. Quello di Joel Miller finisce con un lutto troppo grande da sopportare. Quello di tutti gli altri quando un’inarrestabile epidemia trasforma gli esseri umani in mostri famelici. Il virus nasce da un fungo parassita, il Cordyceps, che colpisce il cervello delle persone rendendole aggressive e soprattutto contagiose. Basta un piccolo morso per infettare gli altri e la pandemia è servita. Servita a rimettere in discussione l’umanità intera e la civiltà stessa. Perché dopo vent’anni i pochi sopravvissuti si sono riorganizzati in sparute comunità che vivono all’insegna del sospetto e della brutalità. Alcune provano a ricreare una parvenza di normalità, altre vivono sotto lo schiaffo dell’ordine militarizzato. Tra loro ritroviamo Joel, sopravvissuto nel corpo ma morto dentro nell’anima. Inaridito e disilluso, vive alla giornata come contrabbandiere. Almeno fino a quando si trova davanti a una “consegna” diversa da tutte le altre. Si tratta di Ellie, una ragazzina speciale da traghettare fuori dai confini della zona di quarantena. Il perché lo scopriremo lungo un’avventura piena di sangue e fatica, disperazione e sprazzi di speranza.
Come si adatta un capolavoro
The Last of Us è una questione di tempo, dicevamo. A partire da quello che è servito per trovare la giusta formula per un adattamento all’altezza del videogioco originale. Serviva riflettere per capire che no, un film non era la scelta migliore. Se ne parlò nel 2014 con Sam Raimi in veste di produttore, ma per fortuna il progetto non andò mai in porto. Perché quella di Joel ed Ellie è una storia che ha bisogno di più spazio, di più tempo, di “stagioni” (quelle della natura nel videogioco) da vivere assieme a questi due personaggi. E così il tempo ha fatto capire a tutti che la serie tv è l’unica soluzione possibile. L’unica in grado di restituire lo stesso ritmo del racconto e lo stesso incedere lungo l’avventura post-apocalittica più bella mai raccontata negli ultimi dieci anni.
Così, durante i suoi 9 episodi densi di umanità e gente balorda, la serie tv di The Last of Us procede con i giusti tempi per farci affezionare a due persone, riprendere fiato al loro fianco a suon di “tempi morti” in cui imparare a conoscersi, sperare per loro ed esserne persino delusi quando Joel ed Ellie compiono azioni aberranti. Perché se è vero che Neil Druckmann ha scritto il gioco avendo in mente Non è un paese per vecchi, The Last of Us non è un posto per cuori puri e stomaci deboli. Lo capiamo poco per volta, grazie a una serie che è un atto d’amore nei confronti del videogioco e dell’arte stessa del trasformare le storie. Perché nel passaggio dal pixel al piccolo schermo, The Last of Us non perde un briciolo della sua potenza e del suo fascino. Qual è stata la mossa decisiva? Semplicemente eliminare tutto quello che ha funzionato nel gioco, ma che in una serie tv avrebbe stonato (o stancato). E, viceversa, inserire elementi nuovi che soltanto una narrazione televisiva avrebbe esaltato.
Emerge così un adattamento fedele nell’anima, pieno di citazioni e piccole chicche che saranno amate dai fan, che però si concede il lusso di cambiare alcune cose (con il rischio di farli persino arrabbiare). Ad esempio allargando gli orizzonti della storia oltre i confini di Joel ed Ellie, soffermandosi su altri sopravvissuti o sulle cause dell’epidemia (nonostante The Last of Us si sia sempre soffermato sulle conseguenze). Questo significa anche rinunciare molto all’azione, limitandola a pochi momenti in cui la tensione e la violenza esplodono con furia. Significa procedere con pazienza e lentezza, gustando ogni panorama e leggendo ogni foglietto ritrovato in un cassetto. Questo significa aver capito cosa rende davvero speciale The Last of Us: non certo sparare ai clicker o spaccare la testa ai nemici, ma soffermarsi sui silenzi, sui fiati, su due persone che si contaminano lungo l’avventura come se si fossero morse a vicenda.
Dentro Joel ed Ellie: un cast ispirato
Mentre l’epidemia si diffonde a macchia d’olio (e d’odio) nel pianeta, la scrittura di The Last of Us va controcorrente e si incunea nel cuore di Joel ed Ellie. Sono loro il cardine, il nucleo, il cuore pulsante di questa serie tv che regalerà al piccolo schermo due nuovi personaggi indimenticabili. Il merito non è solo di una scrittura scrupolosa, intima e realistica in ogni singola battuta pronunciata, ma anche della commovente alchimia tra Pedro Pascal e Bella Ramsey, semplicemente perfetti nei panni di Joel ed Ellie. Più forte di ogni superficiale e frettolosa perplessità sul loro casting, i due interpreti sono eccezionali nell’incarnare tutte le sfumature di questi due sopravvissuti che imparano poco per volta a tenersi per mano. Tutto accade con una naturalezza disarmante, senza dialoghi didascalici, senza evidenziatore tra le mani. Tutto succede grazie a una recitazione in cui tutti lavorano di sottrazione, a suon di sguardi, fiati e gesti emblematici.
Lo conferma Pascal, che dà vita a un Joel forse leggermente meno burbero e inscalfibile di quello del videogioco, perché dal suo volto segnato traspaiono una malinconia latente e un’umanità difficili da sopprimere. Il che rende il suo personaggio ancora più destabilizzante quando ci mostra cosa significa sopravvivere in quel mondo imbastardito. E poi c’è lei: la vera sorpresa di The Last of Us. Quella Bella Ramsey così diversa dalla Ellie del videogioco. Senza quegli occhioni verdi Criticata, ripudiata e detestata dalla frangia più tossica del fandom (che con la ricezione di The Last of Us Parte II ha dato il peggio di sé), Rasmey risponde col talento spontaneo delle predestinate. La sua Ellie è diversa solo nell’aspetto, ma identica nell’animo e negli atteggiamenti. Da una parta ancora bambina: curiosa, goffa e soprattutto nata nell’apocalisse, inconsapevole del mondo di prima. Dall’altra costretta a diventare grande di corsa, in modo maldestro e brutale, con la dolcezza del suo tondo viso tenero sporcato dal sangue e dal fango. Ecco perché per rendere grande The Last of Us bastano soltanto loro due. Anche in silenzio, sulla sella di un cavallo, mentre si tengono stretti lungo il cammino.
La poesia della rovina
Chi ha giocato a The Last of Us lo sa bene: l’ambientazione è la terza protagonista di questa storia. Craig Mazin e Neil Druckmann non potevano certo dimenticarlo, e così anche la serie tv riesce a far parlare un paesaggio contraddittorio. Perché il mondo devastato di The Last of Us abbraccia la rovina mentre coltiva la rinascita, pieno com’è di detriti e piantagioni, di palazzi collassati avvolti nell’edera e ruggine sporcata dal muschio. Due note contrastanti che riecheggiano anche nella splendida colonna sonora di Gustavo Santaolalla, che mantiene le stesse tracce usate nel videogioco: evocative, malinconiche, arrese e allo stesso tempo attraversate dalla speranza. La stessa che infonde i cuori di noi spettatori/videogiocatori davanti a questa serie tv meravigliosa e ispirata, rispettosa anche quando cambia The Last of Us. Perché rispetta il pubblico. Un pubblico di cui si fida e a cui affida una storia che da oltre dieci anni mette alla prova la nostra empatia davanti a personaggi contraddittori come noi. Da amare e odiare. Come si fa davanti a una bugia splendida per una persona e devastante per tutte le altre.
La recensione in breve
"It's not TV. It's HBO". Il vecchio motto dell'emittente americana aveva ragione, perché con The Last of Us HBO ci è riuscita di nuovo. A fare cosa? A toccare un'altra vetta televisiva con un adattamento difficilissimo, che doveva confrontarsi con un capolavoro videoludico raffinatissimo. Con tatto, intelligenza e coraggio Craig Mazin e Neil Druckmann hanno firmato una nuova epopea post-apocalittica, impregnata di umanità e impreziosita da due interpretazioni fenomenali.
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