Poche ambientazioni garantiscono un potenziale di ambiguità, mistero ed infinite possibilità come quelle di un hotel. In definitiva si tratta di un luogo quasi al di fuori del tempo e dello spazio, all’interno del quale la quotidianità di chi lo attraversa viene messa momentaneamente in sospeso e sostituita da una del tutto nuova. Un’evoluzione particolare, questa, all’interno della quale non è assolutamente impossibile vestire anche un’identità diversa, muovendosi tra molte ombre e poche luci.
Non stupisce, dunque, che proprio gli ambienti di un hotel siano la scenografia perfetta per intrecciare la trama decisamente complessa di 7 sconosciuti a El Royale. Seconda regia di Drew Goddard dopo Quella casa nel bosco, il film è interpretato da un cast d’eccezione formato da Jeff Bridges, Cynthia Erivo, Jon Hamm, Dakota Johnson, Lewis Pullman e Chris Hemsworth. Una coralità grazie alla quale il regista è riuscito a costruire una vicenda intrecciata che fonda la sua forza soprattutto su dei protagonisti particolarmente enigmatici. Sette personaggi che, insieme, e grazie alle loro diversità, riescono ad offrire una visione particolare sulla psicologia umana andando a svelare anche degli oscuri segreti. Due elementi che contribuiscono a creare un epilogo quanto meno intricato. Per comprendere meglio la natura di questo film e, soprattutto, dei diversi personaggi, dunque, andiamo ad vedere la spiegazione del finale di 7 sconosciuti a El Royale.
Una storia di confine
Per capire effettivamente la natura di una vicenda è sempre bene iniziare dal principio. E, per quanto riguarda 7 sconosciuti a El Royale questo coincide con una data ed un luogo ben precisi. La storia, infatti, muove i suoi passi alla fine degli anni sessanta, nello specifico nel 1969, e nell’isolato di El Royale. Si tratta di un hotel posizionato esattamente al confine tra la California e il Nevada. Il luogo, in sé pero, non sembra essere foriero di particolari avvenimenti.
A renderlo improvvisamente particolare e “speciale” sono i personaggi che arrivano improvvisamente ad animarlo. Si tratta proprio di sette persone, unici ospiti insieme al concierge, che si ritrovano tutti nello stesso luogo. Una casualità solamente apparente. Andando oltre le maschere e le identità che indossano, infatti, ognuno di loro è arrivato in questo hotel per un motivo ben preciso che esula la sua qualità. Una motivazione che, andando oltre le specifiche necessità di ognuno, potrebbe convogliare in un fine unico.
Fin dall’inizio, dunque, l’ambiguità permea questa vicenda. Solo un elemento è assolutamente chiaro: la funzionalità e il ruolo dell’hotel. El Royale, infatti, agisce come sfondo per gran parte del film, diventa un simbolo potente soprattutto nel finale. Questo luogo ed i suoi diversi ambienti stesso sembrano incarnare l’idea di confine e divisione, rappresentando la dualità presente nella vita dei personaggi. La linea che separa California e Nevada, poi, diventa un richiamo visivo alla divisione tra giusto e sbagliato, buio e luce, passato e futuro. Un simbolismo destinato a culminare nel momento stesso in cui i personaggi prendono decisioni definitive che potrebbero cambiarne per sempre il corso delle loro vite.
Il potere della maschera
Nella storia della letteratura italiana Luigi Pirandello è stato e continua ad essere il maestro assoluto dell’utilizzo della maschera per narrare la fragilità umana ed i molti volti che un uomo può assumere per garantirsi la sopravvivenza o l’accettazione da parte della società. Una lezione che Drew Goddard sembra aver appreso, almeno per quanto riguarda le regole generali, applicandola attivamente alla sua vicenda popolata da un’umanità volutamente celata dietro delle maschere per delle motivazioni diverse. Tra queste c’è quella di padre Daniel Flynn, “prete cattolico” interpretato da Jeff Bridges e perno dell’intera narrazione tra eventi passati e presenti.
Accanto a lui si allinea nel gioco della mistificazione anche il venditore Laramie Seymour Sullivan, con il volto di Jon Hamm, che in realtà nasconde l’identità di un agente dell’FBI inviato per scoprire dei dispositivi di sorveglianza illegali. Non poteva mancare, poi, il personaggio di Emily, una giovane ed ingenua hippie che, in realtà, è in fuga dalla banda di criminali di Billy Lee assieme alla sorellina Rose. Unico elemento estraneo a questo gioco dell’ambiguità è Darleene, la cantante jazz. Un’umanità variegata, dunque, confluita a El Royale per dare vita ad una vera e propria caccia al tesoro. Questo è rappresentato dal bottino leggendario degli O’Kelley, nascosto sotto le travi di una delle stanze d’albergo.
Andando oltre la struttura della trama, volta a perdere staticità con l’evoluzione degli eventi e a prendere sempre maggiore velocità, ogni personaggio ha uno scopo simbolico ben preciso. Ognuno, infatti, rappresenta una sfaccettatura diversa dell’animo umano e delle sue debolezze, contribuendo a creare una narrazione ricca di sfumature. Nel loro insieme, poi, affrontano dei temi universali legati alla psicologia umana. Tra questo il senso di colpa, il desiderio di riscatto e l’eterna lotta interiore tra bene e male.
In un certo senso, dunque, il regista invita gli spettatori a esplorare le diverse sfaccettature della moralità e a considerare come le scelte passate possono influenzare il presente e il futuro. Ed è proprio per questo motivo che i personaggi sono messi di fronte a situazioni difficili, che li costringono a riflettere su chi sono veramente e su cosa sono disposti a fare per ottenere redenzione o liberarsi dai propri scheletri nell’armadio.
Redenzione o condanna?
I finali migliori o, almeno, quelli di cui si continua a discutere per molto tempo, sono quelli che basano le loro fondamenta sulla sospensione del giudizio e, a suo modo, della narrazione stessa. Questo vuol dire che allo spettatore viene lasciato uno spazio interpretativo molto ampio sia per quanto riguarda il futuro dei personaggi che per la comprensione ed il significato stesso dell’epilogo.
In questo caso la questione è una solamente: i sette sconosciuti riusciranno ad ottenere una redenzione desiderata o verranno condannati per i loro peccati passati? La non risposta arriva attraverso un finale all’ultimo sopravvissuto che sembra evidentemente trarre ispirazione dalla narrazione tarantiniana. La soluzione o il degenerare degli eventi sopraggiunge, nello specifico, con il terzo atto.
In questo momento, infatti, fa la sua entrata in scena il terribile Billy Lee, interpretato da Chris Hemsworth, più volte evocato come una sorta di fantasma fino a quel momento. Il suo ruolo, in un certo senso, è quello di un angelo vendicativo o di un demone senza pietà. Attraverso la sua roulette russa, infatti, non fa altro che mettere tutti i diversi personaggi di fronte le loro miserie, i fantasmi del passato ed il famigerato senso di colpa.
Così, cadendo uno dopo l’altro, vinti dalla cattiva sorte e, in gran parte, dalle scelte fatte fino a quel momento, alcuni di loro scoprono la consolazione di un’assoluzione, anche se finta, mentre altri continuano ad essere vittime dei loro stessi sentimenti. Solamente Darleene, l’unica a non aver mai celato una seconda identità, ne esce sopravvissuta insieme ad un inaspettato “padre” Donald.