Tutte le immagini da inquadrare nascono uguali e libere: i film non sono che la storia della loro oppressione.
Nel marzo 1960, il debutto di À bout de souffle nelle sale francesi segna uno di quei momenti che, negli anni a venire, gli storici del cinema identificheranno fra le svolte pivotali della settima arte, i cosiddetti “punti di non ritorno” destinati a sancire un prima e un dopo. Fino all’ultimo respiro, che entusiasma gli spettatori in patria e altrove, si aggiudica l’Orso d’Argento al Festival di Berlino e ispirerà intere generazioni di registi, è il film a cui, da allora in avanti, è stato indissolubilmente legato il nome di Jean-Luc Godard, e per più di un motivo: sarebbe rimasto di gran lunga il suo maggior successo di pubblico, è senz’altro la sua opera più diretta e ‘accessibile’ e, pur nella sostanziale semplicità dell’intreccio, ha rivelato un modo del tutto nuovo di concepire la grammatica cinematografica. Insomma, a neppure un anno di distanza dalla pellicola d’esordio di François Truffaut, I 400 colpi, Godard dimostrava che la “nuova onda” del cinema francese era tutt’altro che un fenomeno effimero e passeggero.
Da allora, proprio grazie a Truffaut e Godard, molte cose sarebbero cambiate: la nozione di cinéma vérité avrebbe incrinato o abbattuto numerosi paradigmi del cinema classico; il concetto di regista si sarebbe legato a doppio filo a quello di autore (la cosiddetta caméra-stylo), secondo un’equazione che, in molti casi, resta valida ancora oggi; e dall’altra parte del globo, sceneggiatori e cineasti avrebbero cominciato a prendere appunti, diffondendo i germi di quella rivoluzione che, entro la fine del decennio, si sarebbe concretizzata con l’avvento della New Hollywood. E tuttavia, Fino all’ultimo respiro non è stato che un tassello – per quanto fondamentale – dello sterminato percorso artistico di Jean-Luc Godard, giunto a conclusione nel 2018 con Le Livre d’image. Difficile, se non addirittura impossibile, rintracciare delle effettive analogie fra il cult interpretato da Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg e l’ardito sperimentalismo di quest’ultima fase della produzione godardiana, con la sua peculiare declinazione del genere documentaristico.
Il cineasta rivoluzionario della “nuova onda”
Eppure, è la libertà espressiva – una libertà sfrenata, travolgente, assoluta – a fare da trait d’union fra il Godard quarantenne che inseguiva Belmondo e Seberg fra le strade di Parigi e il Godard ottuagenario, ormai consacrato “nume tutelare”, di Film Socialisme, Adieu au Langage e Le Livre d’image. Una libertà espressiva che attraversa parimenti quell’abbondante mezzo secolo di attività di un regista quanto mai prolifico e multiforme, impossibile da incasellare nelle maglie dei filoni e dei generi perché sempre pronto a sovvertirne le regole, ad avventurarsi lungo traiettorie inedite, talvolta perfino a rinnegare se stesso. Ed è forse tale aspetto a distinguerlo in maniera così netta dai suoi colleghi e sodali della Nouvelle Vague, assieme ai quali, negli anni Cinquanta, aveva partecipato all’esperienza critica dei Cahiers du cinéma, ponendo le basi teoriche per lo straordinario movimento sviluppatosi a cavallo fra i due decenni.
Se infatti quello di Claude Chabrol, di François Truffaut, di Eric Rohmer è un cinema fedele a se stesso, pressoché inconfondibile anche a uno sguardo poco esperto, il cinema di Jean-Luc Godard rappresenta al contrario una ricerca in costante, irrefrenabile cambiamento. Basti pensare che a Fino all’ultimo respiro fanno seguito opere in cui la drammaturgia si combina al documentario, l’invenzione narrativa alla cronaca della quotidianità: La donna è donna, Questa è la mia vita, Una donna sposata, Due o tre cose che so di lei. Ma gli anni Sessanta sono anche l’epoca degli altri classici della filmografia godardiana, quei titoli che tornano a galvanizzare i suoi ammiratori della prima ora: l’adattamento de Il disprezzo di Alberto Moravia, con Michel Piccoli e Brigitte Bardot; il romanticissimo noir Bande à part, adorato da Quentin Tarantino e omaggiato quarant’anni più tardi da Bernardo Bertolucci in The Dreamers; la fantascienza crepuscolare e modernista di Agente Lemmy Caution: missione Alphaville, Orso d’Oro a Berlino nel 1965; l’avventura in salsa pop art di Jean-Paul Belmondo e Anna Karina nell’iconico Pierre le Fou, noto in Italia come Il bandito delle undici.
Dalla svolta Dziga Vertov alla riflessione sul linguaggio
Ma intanto, i fermenti socio-politici della seconda metà degli anni Sessanta assumono un peso via via maggiore nel rapporto fra Godard e il cinema, spingendolo a un progressivo allontanamento dalle strutture del racconto a favore di un approccio diametralmente opposto: il montaggio straniante, gli inserti di metacinema e la riflessione sociologica sono gli elementi caratterizzanti di film come La cinese e Week-end, che anticipano la fase ‘collettiva’ del Gruppo Dziga Vertov, culminata nel 1972 con il dittico composto da Crepa padrone, tutto va bene e Letter to Jane – An Investigation About a Still. Se nel primo caso Godard si avvale della partecipazione di una star internazionale – e politicamente impegnata – della caratura di Jane Fonda, nel secondo arriva ad analizzarne e decostruirne l’immagine pubblica (e non a caso l’attrice americana riserverà parole amarissime alla propria collaborazione con Godard).
Gli anni Settanta, in pratica, portano alla definitiva archiviazione della Nouvelle Vague e delle sue suggestioni, nonché a un abbandono quasi totale di un cinema ‘narrativo’ per focalizzarsi invece sul valore dell’immagine e sulle sue potenzialità sul piano grammaticale ed estetico. Da qui in poi, la produzione di Jean-Luc Godard si farà ancora più complessa e sperimentale, raccogliendo alterne fortune: titoli quali Si salvi chi può (la vita), Passion e Prénom Carmen, Leone d’Oro alla Mostra di Venezia 1983, recuperano una parvenza di trama, per quanto frammentaria e destrutturata, risultando film ibridi che riescono comunque, almeno in parte, a intercettare l’attenzione del pubblico. Ma l’interesse del regista svizzero, ormai, viaggia verso un’astrazione teorica che da lì in poi si farà sempre più radicale, passando per il progetto pluridecennale delle Histoire(s) du cinéma, e che lo accompagnerà fino alle ultimissime prove di una carriera tanto lunga quanto densa e indefinibile.