In principio era Hans Christian Andersen, celebre scrittore e favolista danese che nel corso del XIX ha regalato all’immaginario collettivo universale fiabe immortali come ad esempio La sirenetta e La regina delle nevi. Se il primo racconto ha trovato fortuna in casa Disney al sorgere degli anni ’80 con il fenomeno cinematografico omonimo di John Musker e Ron Clements, il secondo non ha avuto vita semplice nella fucina artistica di Mickey Mouse. Pensate che ci sono voluti praticamente 85 anni per lo studio d’animazione americana nel realizzare un lungometraggio ispirato alla glaciale favola dell’autore danese, tra esperimenti in cantiere in tecnica mista e ambizioni mai concretizzatesi.
Poi, il successo inaspettato di Rapunzel – L’intreccio della torre nel 2010 risveglia l’interesse della Disney per le fiabe tradizionali; ecco quindi che i registi Chris Buck e Jennifer Lee vengono ingaggiati per dirigere Frozen, 53° classico d’animazione per la Casa di Topolino e adattamento liberissimo de “La regina delle nevi” di Andersen. Il campione d’incassi debutta nelle sale italiane a partire dal 19 dicembre 2013, ben dieci anni fa. In occasione di questo storico anniversario, cerchiamo ancora una volta di capire a pieno il perché di un successo strepitoso ed inaspettato che sorprese la stessa major e che di lì a poco gli avrebbe capovolto le sorti a suo favore in un periodo in cui Walt Disney Pictures non se la passava affatto bene.
Oltre Hans Christian Andersen
La storia di Frozen – Il regno di ghiaccio, è piuttosto lineare: Anna, una ragazza indomita ed ottimista, deve affrontare un epico viaggio insieme alla fedele renna Sven e a un rude uomo di montagna di nome Kristoff per ritrovare la sorella Elsa, i cui poteri hanno intrappolato l’intero regno di Arendelle in un eterno inverno. Incontrando condizioni climatiche proibitive, troll magici e un divertente pupazzo di neve di nome Olaf, Anna e Kristoff lotteranno con tutte le loro forze in una corsa contro il tempo per salvare la loro terra. In realtà, a parte qualche elemento narrativo e suggestione, il 53° classico d’animazione Disney ha veramente poco a che spartire con La regina delle nevi di Hans Christian Andersen. E allora perché la Casa di Topolino ci ha non soltanto messo così tanto a realizzare un lungometraggio animato ispirato alla fiaba danese, se poi alla fine se ne è addirittura allontanata in temi ed ambizioni?
La risposta a questo quesito soggiace nell’ottimo (ed inaspettato) successo commerciale che tre anni prima ebbe Rapunzel – L’intreccio della terra. Il liberissimo adattamento dalla fiaba di Raperonzolo dei fratelli Grimm ritrovò una formula narrativa che Disney sembrava aver perduto nel tempo, raccontata nella cornice dell’animazione computerizzata: quella del musical, della principessa di turno protagonista di un’appassionante avventura, di un love interest affascinante ed ironico, di fidi e divertentissimi amici animali e di un antagonista degno di essere appellato tale. Tutti elementi che avevano reso imprescindibili gli sforzi produttivi degli anni ’90 (da La Sirenetta a Tarzan, per intenderci), poi diluiti progressivamente alle soglie del Nuovo Millennio, con risultati disastrosi al box-office e misero seguito di pubblico; una formula che aveva timidamente funzionato in 2D con La principessa e il ranocchio nel 2009, e l’anno successivo proprio con la nuova Raperonzolo. Forse i tempi erano maturi per coronare un vecchio sogno di Walt Disney, coniugando tradizione disneyana e innovazioni tecnologiche: riesumare il progetto Andersen e tirarne fuori dal cappello un sorprendente successo globale.
Una storia di sorellanza
Non soltanto l’animazione tridimensionale ebbe la meglio su quella tradizionale, ma la nuovissima trasposizione dalla favola glaciale della Scandinavia acquisì linfa vitale inedita quando in sceneggiatura vennero accentuati temi ed elementi narrativi che prima erano stati di certo poco affrontati dalla House of Mouse: non una, bensì due principesse protagoniste, due interessi sentimentali ed una trionfante storia d’avventura invernale con un gran finale che capovolge aspettative e tradizione Disney, nonostante tutto; a salvare il mondo della malvagità dell’uomo non è l’amore inteso come patto sentimentale che unisce una coppia, bensì quello che scorre nel sangue di due sorelle, emozione più grande e genuina che possa nascere ed intercorrere tra due consanguinei.
L’unione fa la forza in questo caso, e quello della famiglia, quello della sorellanza risuona forte e chiaro in Frozen – Il regno di ghiaccio. Un messaggio universale farina nel sacco di Jennifer Lee, non solo qui al suo debutto come co-regista di un lungometraggio animato, ma anche autrice della sceneggiatura dell’adattamento anderseniano. Una dichiarazione d’intenti che stava per scuotere dalla sue fondamenta la major hollywoodiana in timidissima ripresa dopo i buoni successi e il passaparola positivo dei più tradizionali La principessa e il ranocchio e Rapunzel; perché poco dopo la sua uscita nelle sale di tutto il mondo, Frozen divenne manifesto di un nuovo e sperato “Rinascimento Disney”, nel quale potessero finalmente coesistere tradizioni granitiche che avevano reso grande la casa di produzione, e messaggi pacifici che riuscissero al contempo a parlare in maniera schietta e senza precedenti ad una nuova generazione di piccoli spettatori post-moderni.
Le apparenze ingannano
Perché nonostante la cornice produttiva sia semplicemente quella del democratico classico Disney indirizzato ad tutta la famiglia, Frozen – Il regno di ghiaccio è riuscito a conquistare una vastissima fetta di nuovo e vecchio pubblico grazie ai suoi insegnamenti tutt’altro che frivoli e démodé: cosa c’è di male nel professare ad un nuovissimo pubblico di piccole donne che non sempre il fuoco dell’amore subitaneo porta a giuste scelte? Cosa c’è di più saggio nel reiterare quanto il desiderio di non conformità con i dettami della società ci rende unici e ricchi anziché deformi e difettosi? Cosa c’è di più bello nella vita che dichiarare il proprio amore verso una sorella o un fratello e suggellare così un patto di reciproca fiducia che cavalca ben oltre gli spesso insidiosi legacci del desiderio di avere un partner al proprio fianco, conforme alle volontà perverse della nostra società?
Un progressismo che il film di Jennifer Lee e Chris Buck porta avanti con una struttura narrativa ed un sistema di personaggi lineare e non troppo lontano dai fasti che resero dei grandi classici alcuni dei più blasonati e riconoscibili titoli del passato di casa Disney, leggendo nel cuore e nella mente di una audience semplicemente “aggiornata” alle nuove sensibilità contemporanee come con fame assoluta di grandi storie da vivere sul grande schermo. Senza fronzoli, ma funzionali al messaggio da diffondere e senza sbavature.
Un capolavoro musicale
Ma gran parte del successo del film del 2013 è da ritrovare nello straordinario tappeto musicale firmato dalla coppia (nella vita e nell’arte) formata da da Kristen Anderson-Lopez e Robert Lopez, sui cui svetta incontrastata la trascinante “Let It Go”. Inno spensierato al desiderio di non conformità sociale di cui vi accennavamo poco sopra, il leitmotiv musicale del personaggio di Elsa si erge trionfante sopra ad una composizione di testi e musiche orecchiabilissime e di successo subitaneo. Sta di fatto che a poche settimane dalla sua uscita, l’inno di Elsa diventa hit globale, riceve svariate candidature ai premi di fine anno ed ottiene (a furor di popolo) l’Oscar di categoria, in pari con quello assegnato a Buck e Lee per il miglior film animato dell’anno.
Ulteriore segno di quanto Frozen – Il regno di ghiaccio esattamente dieci anni fa entrava nelle case e nel cuore dei piccoli spettatori influenzandone l’immaginario collettivo a suon di classifiche musicali sul podio ed accompagnato da una pletora di merchandising dedicato da far impallidire le pur strabilianti vendite di bambole e gadget delle più classiche principesse Disney di sempre. Tutto, all’improvviso, stava funzionando ancor meglio di quanto previsto inizialmente dalla major, che alla fine della corsa con Frozen riuscì a battere il record per l’incasso globale più alto per un film animato (fino ad allora detenuto da Toy Story 3). E peccato che in seguito il nuovo Rinascimento pianificato non ha trovato terreno fertile per crescere, nonostante un sequel del 2019 di altrettanto successo; anche a dieci anni di distanza, Frozen – Il regno di ghiaccio rimane forse una sintesi ineguagliata di vecchia tradizione Disney e di nuove sensibilità contemporanee. Che lo si ami o lo si odi affettuosamente.
Lo sapevate che Frozen sta per diventare una quadrilogia di successo? Disney ha da poco annunciato che, oltre al terzo capitolo, arriverà anche un Frozen 4, che coprirà l’arco narrativo di una storia originale iniziata…esattamente dieci anni!