Il 5 ottobre 1962 si tenne a Londra la prima mondiale di Agente 007 – Licenza di uccidere (in originale Dr. No), primo film basato sulle avventure letterarie di James Bond a firma di Ian Fleming. Un lungometraggio che, oltre a lanciare uno dei franchise più redditizi e popolari del cinema angloamericano, ha definito per decenni l’immaginario popolare legato al genere spionistico, tra gadget, belle donne e frasi a effetto. Tra cui quella epocale, imprescindibile, pronunciata dal protagonista, talmente indelebile che quando è arrivato il momento di reinventare e fare tabula rasa nel 2006 con Casino Royale, la canzone nei titoli di testa ci ha apertamente scherzato su, ribadendo a più riprese un messaggio rivolto da Bond al pubblico: You Know My Name.
Il libro giusto
Così come Casino Royale era la fonte perfetta per tornare alle origini del personaggio dopo l’11 settembre, quando il pubblico aveva perso interesse per storie ormai prossime alla fantascienza pura, Dr. No era il punto di partenza giusto nel 1962, con la sua premessa che ruota intorno al sabotaggio dei razzi di Cape Canaveral, luogo molto presente nell’attualità americana di allora. In parte una scelta obbligata, perché Ian Fleming non incluse il primo romanzo nel pacchetto dei diritti venduti al produttore Harry Saltzman e non ne faceva parte neanche Thunderball (a causa di una disputa legale in corso tra l’autore e un ex-collaboratore), ma in realtà un colpo di genio. Perché pur essendo il primo film della saga (ma basato sul sesto libro), è come se Agente 007 – Licenza di uccidere fosse solo l’ennesimo capitolo di una storia già in corso, un incipit che in realtà arriva in medias res: un Bond già pienamente consapevole delle sue capacità, che si guadagna la fiducia di Sylvia Trench – e dello spettatore – già nella sua prima scena, quando accende la sigaretta e pronuncia quell’impeccabile “Bond, James Bond”.
Tutti gli ingredienti in regola, o quasi
È come se l’agente con licenza di far fuori i cattivi fosse sempre esistito, tanto è perfettamente calibrato il miscuglio di ingredienti divenuti capisaldi del franchise: c’è già il gun barrel iniziale, accompagnato dall’inconfondibile tema musicale, così come l’impostazione visiva sfarzosa ideata dallo scenografo Ken Adam. C’è Felix Leiter (interpretato per la prima e unica volta da Jack Lord), ci sono l’M di Bernard Lee e la Miss Moneypenny di Lois Maxwell. Manca all’appello solo Q, che appare con il nome di Major Boothroyd e ha il volto di Peter Burton anziché quello di Desmond Llewellyn, che gli subentrerà a partire dal capitolo successivo (e bisognerà aspettare ancora un episodio per vedere il rapporto quasi antagonistico tra lui e 007). E ci sono già i primi rimandi alla SPECTRE, entità che dominerà il corso narrativo della saga in tempi non sospetti, quando le trame a lungo termine non erano un elemento ricorrente nei blockbuster.
Connery, Sean Connery
Fa sorridere, oggi, pensare a chi addirittura si inventò un intero sito internet per contestare la scelta di Daniel Craig come primo Bond del terzo millennio, lamentandosi – tra le altre cose – del suo colore dei capelli. Chissà cosa avrebbe fatto, se avesse avuto gli stessi mezzi negli anni Sessanta, una volta scoperto che un certo attore scozzese i capelli non li aveva proprio: affetto da calvizie precoce già a diciassette anni, l’allora trentunenne Connery indossò un toupet per diventare l’elegante agente segreto. Uno dei tanti artifici, dal momento che l’attore non era abituato agli ambienti altolocati di Londra e dovette essere iniziato ad essi dal regista Terence Young. Strategia che funzionò a tal punto da rendere impossibile immaginare un Connery fuori dal set che non fosse l’immagine dello stile British come il suo personaggio. Aspetto su cui il diretto interessato ironizzò anni dopo, per l’esattezza nel 2002, in uno spot di RAS Assicurazioni dove nessuno lo riconosce e lui dice “Sono Connery. Sean Connery!” Magari avrebbe dovuto usare altre due parole…