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Home » Film » Alex Infascelli su Kill Me If You Can: “Possiamo definirlo quattro film insieme!”

Alex Infascelli su Kill Me If You Can: “Possiamo definirlo quattro film insieme!”

La nostra intervista ad Alex Infascelli, regista del documentario Kill Me If You Can con protagonista l'uomo che ispirò Rambo.
Gabriella GilibertiDi Gabriella Giliberti27 Febbraio 20238 min lettura
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Kill Me If You Can, l'intervista ad Alex Infascelli
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Il 31 ottobre del 1969 le trasmissioni televisive di tutta l’America vengono interrotte da un annuncio: un uomo armato fino ai denti, ha preso il controllo di un jet della TWA in partenza da Los Angeles e diretto a San Francisco, destinazione finale: Roma. L’uomo in questione è Raffaele Minichiello e a distanza di 54 anni da quel giorno, Alex Infascelli con il suo Kill Me If You Can, racconta la sua folle storia che ispirò uno dei personaggi più iconici del cinema: Rambo.

Quella di Minichiello non è stata una vita semplice; in effetti, potremmo definire la sua esistenza come un sorprendente film in quattro atti, un po’ come ci mostra Infascelli nel suo documentario. Un film pieno di plot twist, cambi di genere, stravolgimenti, dolore ma uno straordinario desiderio di vita. La sua storia, infatti, è stata già raccontata da Pier Luigi Vercesi nella biografia “Il Marine. Storia di Raffaele Minichiello” da cui poi è stato tratto il documentario in questione. Qui Infascelli, oltre a dare il proprio ricercato stile, mette ancora di più Raffaele Minichiello al centro dell’obiettivo, sviscerando non solo l’uomo ma anche il periodo storico, i cambi sociali e culturali in bilico tra Italia ed America.

In occasione dell’uscita di Kill Me If You Can al cinema con Wanted Cinema il 27, 28 Febbraio e 1 Marzo, ecco la nostra intervista al regista Alex Infascelli per farci raccontare di più non solo della genesi di questo film ma anche ciò che profondamente lega la carriera del regista al lungo percorso di vita del suo protagonista.

Kill Me If You Can, un legame inaspettato

Il regista Alex Infascelli sul set

Prima lo scrittore D’Alessandro, nonché autista di Kubrick, poi un eroe nazionale come Francesco Totti, e adesso una figura particolare piena di luci ed ombre come Raffaele Minichiello. C’è qualcosa che accomuna queste tre figure o che comunque ti ha spinto ad avvicinarti a loro?
Non solo c’è qualcosa che accomuna loro tre ma che mi accomuna a loro, ed è questa ricerca del padre. Una ricerca del padre che avviene nella vita dove il padre è sia una figura di riferimento spirituale ma è anche una guida educativa che, quando viene a mancare oppure è troppo presente, può fare dei danni. Nel caso di Emilio, lui trova questo padre in Kubrick; nel caso di Totti, c’è un padre che è presente ma non grafitica un figlio. Nel caso di Raffaele è un padre che prima c’è, poi non c’è. Tra tutti e tre, però, Raffaele è quello che cerca un padre più profondo, sia diventando padre a sua volta ma anche cercandolo a livello universale: Dio.

Nell’eterno pescare le storie, mi sono capitati questi “tre pesci” ma ho capito solo dopo che di fatto avevano a che fare direttamente col pescatore, ovvero con me. Alla fine noi registi raccontiamo la nostra storia attraverso le storie di altri. La cosa divertente è che a corroborare questa tesi ci siano tutte le coincidenze molto forti nella mia storia che mi legano a questi tre personaggi. Per Kubrick ho sempre avuto una connessione fortissima fin da quando ero bambino, tra i quaderni di 2001: Odissea nello Spazio o gli incontri fatti a Los Angeles quando ero lì, da ragazzo, con Milena Canonero. Poi sono finito a vivere nella strada dove Francesco Totti è nato quando mi sono separato dalla mamma della mia bimba e, quindi, avevo mia figlia che andava a scuola dove andava lui da ragazzino; ed infine con Raffaele, tra tutti quello meno probabile, scopro che nel 1985, proprio nel distributore che lui aveva a Corso Francia a Roma, io avevo comprato il mio primo skateboard.

Erano degli appuntamenti questi tre documentari. Non si tratta di scoperte, bensì di riscoperte.

Chi è Raffaele Minichiello, il Rambo italiano?

Raffaele Minichiello in una foto d'epoca entrato nei marines

Una cosa interessante risiede un po’ nella sospensione del racconto e del suo stesso protagonista. È come se Raffaele sia qui ma al tempo stesso non è da nessuna parte. Una specie di inconsapevolezza dell’esistenza. Non so se sia una sensazione condivisa o qualcosa che si è delineata di più strada facendo?

Credo che ci fosse già dall’inizio una mia sensazione che quello potesse essere l’unico modo per raccontare Raffaele. C’è un’orizzontalità narrativa che in realtà è una maschera perché poi, quello che noi raccontiamo è quasi un film palindromo. Sicuramente la vicenda umana di Raffaele si prestava a questo tipo di struttura un po’ quantistica; però io da subito ho pensato che quello potesse essere il modo giusto per raccontarla, cioè dare la sensazione che non ci fosse una causa ed effetto, ma che gli avvenimenti accadessero quasi contemporaneamente in un unico flash. All’inizio ho avuto addirittura la tentazione di raccontarlo saltando da un punto all’altro, anche facendo salti di 30/40 anni e lasciando allo spettatore il compito di rimettere apposto il puzzle, però mi sembrava un po’ azzardato. Questo comunque perché sono convinto che la vita sia un qui ed ora e da nessuna parte come, e tu lo citi, il titolo del mio libro. In una storia poi dove si sale in volo ancora di più. Una persona per osservare la propria vita sale su un aereo e la sorvola, ha una visione che molto spesso è più chiarificatrice che da dentro.

Raffaele Minichiello e Alex Infascelli in una foto di backstage

In questo senso come è stato lavorare braccio a braccio con Raffaele? Ricostruire proprio con lui la sua storia.
È stato un lavoro durato anni, nel senso che io e Raffaele ci siamo avvicinati nel 2017/2018. Ed io già là ho cominciato a corteggiarlo, ho comprato i diritti del libro, ci siamo incontrati a Milano un paio di volte. Raffaele ad un certo punto è tornato a vivere a Seattle e a me è arrivata l’offerta di fare Totti, per cui ho capito che quella era un’occasione che non potevo lasciare andare e mi sono dedicato a quello. Come accade sempre, però, quel tempo è stato necessario perché Raffaele era stato così tanto tempo lontano dagli Stati Uniti che mi aveva fatto un racconto di quel Paese molto filtrato da un ricordo. Invece, il fatto che mentre io facevo Totti lui tornava a vivere lì e si immergeva in quel liquido sociale, politico, americano, sarebbe stato in realtà la mia salvezza perché mi avrebbe dato una dimensione vivida, un po’ come parlare sì con un italiano ma al tempo stesso anche con un americano.

Posso dirti che più che lavorare braccio a braccio, è stato un braccio di ferro per cercare di tirargli fuori non tanto delle verità (perché sia io che lui siamo convinti che la verità in assoluto non esiste) quanto una percezione che fosse vivida, vera, sorgiva. Volevo qualcosa che fosse ancora in uno stato primordiale e non digerito; quindi, toccargli delle corde a livello emotivo che potessero suonare delle note nuove e non qualcosa di già raccontato e visto.  Credo comunque di esserci riuscito e lì dove non ci sono riuscito, mi è piaciuto lasciarmi alla sbarra.

La vita non è un film (forse)

Raffaele Minichiello in una foto di scena

Come è stato costruire, tecnicamente parlando, il film? Quello che vediamo è un vero e proprio puzzle di immagini dell’epoca, repertorio, interviste fatte da te e scene girate con Raffaele. Un po’ come se fosse una commistione tra passato e presente, ma soprattutto realtà e mito mediatico.
Più che mito mediatico, la cosa che forse ho più tenuto presente per tutto il tempo era proprio il romanzo cinematografico. Il grande cinema che sembra quasi scaturire da ogni singolo giro, punto di snodo o tratto del personaggio tra i vari personaggi che è Raffaele nella sua vita. Io dall’inizio, appena ho letto la storia e ho parlato un po’ con lui, mi sono detto: “Ma qui non sto facendo la storia di un personaggio solo”. Quante volte, alla fine, si cambia in una vita? Per cui, io avevo isolato quattro personalità di Raffaele: una era una specie di Forrest Gump, per iniziare, il periodo in cui lui arriva in America, viene vessato dai suoi compagni e, dal punto di vista americano, in quanto immigrato, è un emarginato, un debole; dopodiché si trasforma in un eroe di guerra, incazzato nero per un’ingiustizia e lì diventa Rambo, non a caso è il film che prende ispirazione da questa vicenda.

Dopo Rambo, si arriva improvvisamente in una dimensione più urbana nella Roma degli anni ’70, con gli Anni di Piombo e Raffaele che tenta nuovamente di fare un attentato, questa volta per una questione ancora più personale, dove mi sembrava fosse diventato un po’ come il Travis Bickle di Taxi Driver. Ed infine, si arriva all’oggi, dove lui è Kowalski di Gran Torino. E la cosa incredibile è che se si guardano le foto relative a questi quattro periodi e personaggi a cui alludo, lui è fisicamente così!

Avevo chiaro, più che altro, di avere a che fare con una quantità di riferimenti cinematografici, quindi… come ho accostato il materiale? Seguendo un principio cinematografico: tenevo Raffaele protagonista delle immagini, una fonte di grande ricchezza, e lo facevo muovere come si fa con un personaggio, apparendo e scomparendo. Ogni volta cambiato dal tempo e dagli eventi, ed ogni volta protagonista delle proprie immagini, un antieroe protagonista di un film. Possiamo dire che Kill Me If You Can è quattro film insieme; forse la cosa più difficile è stata quella di scegliere quali immagini usare, quali tratti sottolineare. Questo però è un trucco da documentarista, ovvero non è la narrazione a scegliere le immagini bensì sono le immagini che dettano una narrazione.

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