Il titolo del film di Federico Fellini, Amarcord, significa “io mi ricordo” in dialetto romagnolo. E racchiude perfettamente il senso di un’opera cinematografica che racconta l’infanzia e la giovinezza del regista riminese, durante gli anni del Fascismo. Le immagini allora sono ricordi, memorie, di un tempo a cui l’autore pensava con nostalgia. Ma c’è di più. Secondo lo sceneggiatore, Tonino Guerra, andrebbe fatta una piccola aggiunta.
“Tutti pensano che sia solo il riferimento al dialetto mi ricordo: è vero, ma solo per assonanza, perché in realtà deriva dalla comanda dei ricchi che entravano al bar chiedendo l’amaro Cora. Da amaro, amaro Cora, è nato Amarcord“, ha rivelato in un’intervista a La Repubblica.
La parola Amarcord ha talmente tanto colpito il pubblico da entrare poi nel linguaggio comune, dove il neologismo viene usato per identificare tutte quelle storie che hanno a che fare con il passato.
Scritto come anticipato assieme a Tonino Guerra, leggendario poeta dialettale romagnolo, nonché sceneggiatore, tra gli altri, per Michelangelo Antonioni e Andrej Tarkovskij, Amarcord, uscito in sala nel dicembre del 1973, è forse il film più personale di Federico Fellini che ha trasfigurato la sua infanzia in un racconto onirico e carico di emozioni, accompagnate dalla meravigliosa colonna sonora di Nino Rota.
Sono tanti i personaggi memorabili del lungometraggio, come la Gradisca di Magali Noël, la tabaccaia dai seni prosperosi (notissimo tòpos felliniano). O Teo, lo zio del protagonista, il formidabile Ciccio Ingrassia. Il quale, dopo un lungo periodo di ricovero in manicomio, sale su un albero e urla di volere una donna. Tra la scuola, con professori discutibili, e l’attesa di eventi come il passaggio del transatlantico Rex, Titta e i suoi amici, tra cui un inedito Alvaro Vitali, scoprono il sesso. Amarcord si aggiudicò l’Oscar al miglior film straniero nel 1975.