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Home » Film » Avatar: la perfomance capture come indagine sul futuro

Avatar: la perfomance capture come indagine sul futuro

Che ruolo ha in Avatar la performance capture? Scopriamo come il film di James Cameron come indaga il futuro a partire dal ruolo dell'attore.
Alessio ZuccariDi Alessio Zuccari27 Settembre 20226 min lettura
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avatar cover
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Al netto delle tante battute e dei tanti scetticismi che ne accompagnano da sempre il nome, Avatar ha cambiato il modo di intendere le cose al cinema. Il film di James Cameron è stato uno spartiacque. Ha riportato in auge l’utilizzo del 3D, una tecnica di visione che nel mondo cinematografico rispunta fuori ciclicamente da almeno cent’anni. Ogni volta è venduta come una novità anche se di fatto la visione stereoscopica all’interno di una sala non lo è, ma di certo Cameron ha avuto il merito di saper convogliare nella riproposizione del 3D un sense of wonder senza precedenti. Quando guardiamo Avatar, siamo noi ad essere dentro Pandora e non è Pandora a uscire dallo schermo.

E il film, attraverso questa dimensione del grandioso, riesce a invertire i ruoli della narrazione e dell’esperienza sospingendo la prima tramite la seconda, mettendo in primo piano l’importanza del grande evento collettivo come catalizzatore di riflessione. Perché certamente l’intreccio di Avatar non si affida all’originalità per farsi oggetto dirompente, quanto appunto all’incisività dello spettacolo che non è fine a se stesso, bensì anticamera di un ragionamento sui temi del presente e del futuro.

La performance capture in Avatar

avatar performance capture

Nel mezzo di questi discorsi c’è un aspetto a volte meno dibattuto, ma che ha partecipato in maniera netta al successo del film come lo ricordiamo oggi. Ci riferiamo alla performance capture, così come l’ha definita da subito anche il produttore del film Jon Landau, ovvero quella tecnica che ricrea in digitale le performance degli interpreti a partire dalle loro prestazioni dal vivo.

Si scompone principalmente in due momenti. Il primo è quello della motion capture, o mocap, che sfruttando l’uso di diverse tecnologie differenti ma affini (il sistema ottico, quello più versatile in ambito cinematografico, magnetico o elettro-magnetico) si occupa di registrare digitalmente il movimento degli attori nello spazio fisico e di ricrearli all’interno dello spazio virtuale.

Il secondo si configura nella pratica della facial capture, tassello fondamentale della performance capture perché quello a cui spetta il cruciale compito di “umanizzare” l’interpretazione dell’attore tramite la registrazione della mimica e delle espressioni facciali. E Avatar spostò di diverse tacche lo standard, ottenendo ai tempi risultati sbalorditivi, con l’introduzione e l’uso di un casco indossabile su cui era montata una telecamera in grado di riprendere da vicino il volto degli interpreti ricoperti da piccoli marcatori utili a ricostruirne le fattezze.

Lo scontro sul digitale e il corpo dell’attore

avatar performance capture

Al di là del cinema come esperienza, al di là del cinema come strumento di indagine dei temi sociali, Avatar introdusse anche una riflessione su quale sarebbe stato il destino riservato all’attore nell’epoca dell’utilizzo sempre più massiccio del digitale. Tra le critiche mosse all’opera di Cameron c’era infatti anche l’accusa di essere un giocattolone artificiale, intangibile, insincero, frutto di un desiderio egomaniaco che cancella le individualità.

Una voce che vale la pena ricordare è quella del compianto Eugenio Scalfari. Nella recensione che ne fece ai tempi, dove riconosce con grande onestà intellettuale di non essere il target di riferimento del film ma di essersi comunque sentito coinvolto, il fondatore de la Repubblica difende il lavoro degli interpreti e delle altre figure coinvolte nella realizzazione. Scrive così: “La constatazione che quel tipo di film cancella gli attori e ogni altro soggetto all’infuori del regista, del computer e degli effetti speciali è esatta solo in parte. Gli effetti speciali usati in quelle dimensioni richiedono eccezionali dosi di fantasia”. Quelli che Scalfari chiama effetti speciali sarebbe più corretto definirli effetti visivi, ma l’osservazione è azzeccata, perché pone il fuoco sul grande e intenso lavoro delle professionalità coinvolte, e dei loro spunti creativi, nella realizzazione degli ambienti digitali che siamo sempre più abituati a vedere al cinema.

Il giornalista rispondeva in realtà alla posizione ben più scettica di Roberto Faenza: “Alla fine di queste visioni la certezza è una sola: il computer ha preso il sopravvento sulla macchina da presa, le immagini umane cui siamo stati abituati sin dai tempi dei fratelli Lumière sono ormai superate da immagini virtuali e artificiali. In una parola l’uomo non è più al centro del cinema (hollywoodiano), perché l’interesse del suo baricentro immaginifico si è spostato in avanti.”

La morte del cinema umano?

avatar performane capture neytiri

Il titolo del suo articolo per la Repubblica non lascia spazio a fraintendimenti: “Questo Avatar uccide il cinema umano”. Ecco, il punto sta quindi sul come il corpo attoriale, quello in carne e ossa, risponda ancora alle esigenze della visione cinematografica contemporanea. Ma Avatar, più che uccidere il cinema umano o accantonarlo da una parte, problematizzava la questione. Il corpo dell’attore è ancora in grado di rispondere adeguatamente a queste esigenze, e il corpo umano è in grado di ingaggiare le sfide del futuro?

Pensiamo al corpo di Jake Sully (Sam Worthington), il marine protagonista del film che nella forma di essere umano è disabile perché ha perso l’utilizzo delle gambe e che invece trova nel corpo dell’avatar Na’vi in cui “trasla” tramite un processo tecnologico non solo la possibilità di tornare a camminare, ma un’intera nuova corporeità più prestante e più totale. E per raggiungerla, sullo schermo anche l’attore è chiamato al compito di integrare il proprio corpo con tute, marcatori, caschi in grado di amplificarne dimensioni e possibilità espressive.

Già lo stesso termine “avatar” racchiude parte del senso di questa avvenuta sintesi tra la carnalità e un qualcosa proteso oltre il normale: deriva dalla parola sanskrita avatāra e significa discesa, incarnazione, e nel contesto della religione induista arriva a essere inteso anche come manifestazione di una deità in forma corporea.

Verso il futuro

avatar performance capture

La questione è complessa e Avatar non vuole consegnare una risposta definitiva, ma tracciare ancora una volta una via. Negli anni seguenti l’utilizzo della performance capture intesa come descritta sopra sarebbe diventata uno standard delle produzioni ad alto budget hollywoodiane. Basti pensare a che tipo di ruolo gioca in un’altra grande narrazione cinematografica dei nostri tempi, quella del Marvel Cinematic Universe, dove a essere in ballo è spesso il concetto stesso di superomismo, che ancora una volta Avatar pare aver anticipato incuneandosi nello spazio tra attore e il risultato della sua performance.

Soprattutto, Avatar sembra aver intercettato e trasposto a livello cinematografico un discorso dell’oggi già proiettato al domani, quello che vede la nostra quotidianità di attori, nel senso di individui che agiscono, già fortemente integrato con una tecnologia che ci pervade in ogni momento della giornata. Dallo smartphone che è estensione artificiale del braccio e della nostra personalità, alle earpods che indossiamo di continuo, passando per il posizionamento su Internet che ci rende costantemente partecipi di una rete virtuale e collettiva.

Siamo insomma alla soglia di un confine tra corporeo e tecnologico dove la linea si sta facendo sempre più sfumata. Ci si avvicina a un sincretismo concettuale e fisico che Avatar aveva già proposto come oggetto di riflessione al grande pubblico, risultante delle sue ambiziose metamorfosi filmiche.

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