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Home » Film » Bohemian Rhapsody è stata un’allucinazione collettiva?

Bohemian Rhapsody è stata un’allucinazione collettiva?

Bohemian Rhapsody, biopic musicale campione di incassi e consenso del pubblico, è un buon film o è stata un'allucinazione collettiva?
Alessio ZuccariDi Alessio Zuccari1 Marzo 20236 min lettura
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bohemian rhapsody cover
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Bohemian Rhapsody ha avuto un processo produttivo a dir poco scoppiettante. Nasce nel lontano 2010, quando Brian May annuncia che era in cantiere il progetto di un film sui Queen e incentrato in particolare sulla figura di Freddie Mercury. Nei panni del leggendario cantante, morto all’età di 46 per complicazioni legate all’AIDS, sarebbe dovuto esserci Sacha Baron Cohen. Qualche tempo dopo Cohen rinuncia per divergenze creative. La sua idea di quello che sarebbe dovuto essere il film e soprattutto il calco della persona di Mercury non combaciava con quello che invece voleva la band.

Sacha Baron Cohen guardava a Bohemian Rhapsody con in mente un’opera estrosa, esagerata, eccessiva e schietta, soprattutto con il riferimento a quello che era stata la vita personale e sessuale di Mercury. I Queen, beh, volevano un film… normale. Così il progetto passa più volte di mano sotto l’attenta supervisione della band e capita, infine, sotto la supervisione dello sceneggiatore Anthony McCarten e del regista Bryan Singer, con Rami Malek a fare da protagonista. Con un ultimo colpo di scena in coda, anche Bryan Singer a un certo punto viene silurato e al suo posto arriva Dexter Fletcher a finire le riprese e a curare la post-produzione.

Bohemian Rhapsody esce finalmente al cinema negli ultimi mesi del 2018. In poco tempo ingrana tantissimo e diventa un successo al box office. Tiene botta al botteghino per intere settimane, trascina un sacco di gente al cinema e finisce la sua corsa con più di novecento milioni di dollari di incasso globale, pronto a proiettarsi da lì a poco anche nella stagione dei premi. Anche qui successone. Si porta a casa, con a dir poco della perplessità, ben quattro statuette degli Oscar: Miglior attore, Miglior montaggio, Miglior montaggio sonoro e Miglior sonoro.

La performance di Rami Malek

bohemian rhapsody

In realtà, in questi Oscar qui, c’è anche la risposta al perché Bohemian Rhapsody sia piaciuto così tanto al pubblico e abbia fatto grattare più di una volta la testa alla critica. Un film partorito nel forte controllo creativo da parte di chi poi verrà rappresentato all’interno dello stesso, non può che essere un’opera conservativa. Bohemian Rhapsody è davvero molto conservativo. Pulito, patinato, edulcorato degli eccessi a cui faceva riferimento Cohen e molto attento a non scomodare nessuna coscienza nel fare il ritratto di una rockstar amatissima come Freddie Mercury.

Rami Malek risponde in prima istanza a questa necessità. Sulla sua performance si è detto di tutto. Sbeffeggiata a partire dalle protesi dentarie ai limiti del caricaturale, criticata nello sforzo di meningi con il quale Malek prova con tutto se stesso a donare intensità alla sua prestazione. Il risultato è un costante stato di iper-concentrazione in cui ricade il suo personaggio, profondo perché profonda è costantemente la sua espressione, drammatico perché drammatica è questa faccia corrucciata e tanto, troppo imbronciata per essere presa sul serio.

E il film è tutto lì intorno a proteggerlo, a cullarlo senza distrazioni di sorta, a rassicurarlo (e rassicurare il pubblico) facendo attenzione a tagliare via nel fuoricampo il vero turbamento, la vera scomodità emotiva. Quella di Malek è la prova che fa stare bene perché sufficientemente mimetica da ricostruire il ricordo, ma anche abbastanza conservativa da non alterarlo per così come quel ricordo vuole essere archiviato: malinconico, non scabroso.

Un montaggio incomprensibile

bohemian rhapsody

E nel montaggio di Bohemian Rhapsody si rivela l’altro grande, e in ottica premi inspiegabile, bluff del film. Un’opera che si dischiude in maniera tutto sommato convenzionale, che procede con toni altalenanti tra più bassi che alti senza reali guizzi drammaturgici che però si aggiudica anche una statuetta importantissima, quella che fa riferimento a un lavoro che al cinema dà ritmo, significato e valore.

Eppure il montaggio del film è in più di un’occasione insensato. È un abbaglio. C’è un ottimo e famoso video sul canale YouTube di Thomas Flight intitolato “Bohemian Rhapsody’s Terrible Editing – A Breakdown” dove viene spiegato passo per passo come l’editing della pellicola, a cura di John Ottman (anche compositore dell’opera), ignori in sostanza ogni regola tecnica e concettuale del mestiere. Viene spesso spezzata la continuità spaziale, si fatica a trovare motivazione nelle scelte di stacco tra un’inquadratura e l’altra, si crea un eccesso di informazione visiva che non ha però nessun corrispettivo nella costruzione narrativa.

Insomma, è difficile comprendere il perché di un premio così importante e tecnico se non mettendolo in relazione agli ultimi due vinti dal film, nei quali è racchiusa, probabilmente, l’unica carica di valore da concedere a un progetto altrimenti azzoppato e piuttosto convenzionale.

Dove inizia e finisce il senso di Bohemian Rhapsody

bohemian rhapsody

L’Oscar al Miglior montaggio sonoro (John Warhurst e Nina Hartstone) e al Miglior sonoro (Paul Massey, Tim Cavagin e John Casali) ci consegnano forse una risposta. Più che un biopic su Freddie Mercury, Bohemian Rhapsody è un film musicato con le canzoni dei Queen. Nelle montagne russe di una costruzione drammaturgica che lascia a desiderare, gli unici momenti che funzionano per davvero sono quelli in cui tutto si ferma, la narrazione esce di scena e a salire sul palco è la musica di un gruppo che ha fatto ballare e cantare intere generazioni.

Il grande picco del film è nel finale. Il climax del terzo atto che tira dritto fino al celebre Live Aid, momento che in Bohemian Rhapsody funziona da pacifico e conciliante ritorno in famiglia per il personaggio di Mercury, è un’esplosione d’energie. Come potrebbe non esserlo, considerato che quel live è giudicato da molti come il miglior concerto della storia e la pellicola ne fa copia carbone, non lo interpreta, ma lo mette semplicemente in scena. Inquadratura per inquadratura, movenza per movenza, suonando quella stessa musica e campionando quello stesso cantato.

Come potrebbe non funzionare una conclusione così appagante e spettacolare in un luogo, la sala cinematografica, deputata allo spettacolo e alla scarica d’adrenalina? Quindi ecco dove inizia e finisce l’abbaglio di Bohemian Rhapsody, proprio qui, al Wembley Stadium del 1985, ricreato in CGI e popolato di tutti quei volti che a distanza di decenni si crogiolano all’idea di riviverlo seduti in poltrona, sul grande schermo. Finisce qui, in una favoletta incensata che sfrutta tanti nomi e poche motivazioni per riproporre una diretta fuori dal tempo, uno spicchio di incontro collettivo che scalda i cuori, solletica l’ugola e lascia a secco tutto il resto.

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