Finalmente nelle nostre sale è arrivato l’attesissimo The Whale, film diretto da Darren Aronofsky e tratto dalla piéce teatrale omonima di Samuel D. Hunter, qui anche in veste di sceneggiatore. Un lungometraggio molto commovente che, passato in concorso alla 79° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia senza però vincere alcun premio, ha fatto parlare moltissimo di sé dopo l’entusiastica reazione del pubblico alla fine della proiezione. Al termine della prima, tutti si sono alzati in piedi per tributare un’emozionante e sentitissima standing ovation alla vera star del film, ovvero un ritrovato Brendan Fraser.
Come vi anticipavamo direttamente a Venezia nella nostra vibrante recensione in anteprima, l’attore canadese è riuscito miracolosamente a fare suo un personaggio di matrice teatrale senza rinunciare alla propria esperienza personale, infondendo così al tenero Charlie del film di Aronofsky molto più che una lettura recitativa tradizionalmente “da Oscar”, bensì un bagaglio emotivo ad hoc che rende l’ultima prova attoriale di Fraser un manuale di onestà e compassione. Vediamo insieme perché.
Parola chiave: redenzione
Tratto dallo spettacolo teatrale omonimo di Samuel D. Hunter, The Whale è la nuova sfida cinematografica di Darren Aronofsky, che mette da parte le (ri)letture bibliche che avevano fortemente caratterizzato i suoi ultimi Noah e Madre, per concentrarsi nuovamente su pellicole di natura e budget più modesti che ricalcassero in una qualche maniera temi ed ossessioni che avevano reso incisivi alcuni dei suoi capolavori del passato. Non è di certo un caso che la claustrofobica storia di reclusione del Charlie di The Whale abbia molto in comune con il Randy “The Ram” di The Wrestler, più di quanto non possa apparire in superficie.
Se il febbricitante incubo ad occhi aperti de Il cigno nero con Natalie Portman era ad esempio un viaggio di ossessione con biglietto di sola andata verso l’auto-distruzione, la dolente ode ai sogni infranti dell’America profonda con Mickey Rourke sapeva già di archetipico racconto di redenzione. Una redenzione, quella raccontata da Aronofsky, che nel film vincitore del Leone d’Oro nel 2008 acquisiva valore grazie alla performance di un ritrovato e ruvidissimo Rourke, alle prese con un ruolo di attempato wrestler in fuga dai fantasmi del passato e alla ricerca di una possibile riappacificazione con il suo presente, il suo futuro e sua figlia. Un ruolo cucito addosso al bagaglio personale dell’attore americano, fino a quel momento paria di Hollywood che con Aronofsky cercò una possibile redenzione mediatica e professionale. Per questo motivo il cineasta americano ha deciso di tornare sui propri passi artistici e ri-allestire nella sacralità del set cinematografico il miracolo della redenzione, davanti la macchina da presa e a telecamera spenta: quella di Brendan Fraser.
L’insostenibile peso emotivo di Brendan Fraser
L’attore canadese non si è tirato indietro di fronte alla coraggiosa proposta di Aronofsky. Il regista statunitense aveva bisogno di un Charlie che venisse interpretato da un veterano del cinema da reinserire nello status quo dell’industria di Hollywood, e nel volto e nella fisiognomica di Brendan Fraser ha trovato il protagonista perfetto di un adattamento dal palcoscenico al grande schermo altrettanto brillante. Nei panni dell’obeso professore di letteratura inglese recluso nel suo appartamento a causa delle sue precarie condizioni di salute, Fraser regala una prova d’attore d’eccezione, capace di travalicare la dannosa definizione di “Oscar bait” attraverso un body language epifanico e dolente.
In The Whale, l’attore protagonista affronta la sfida Charlie non soltanto in sala trucco: imbellito di una tuta prostetica che lo ha aiutato ad entrare (stavolta, in tutti i sensi) nel corpo pericolosamente sovrappeso del personaggio teatrale, Fraser non si lascia intimidire dal peso specifico del make up di scena: l’interprete sa con consapevolezza che quel ruolo creato dal drammaturgo Samuel D. Hunter sarebbe stato il biglietto di sola uscita dal limbo professionale e privato che lo aveva trattenuto per tutti quegli anni. Lui che si era allontanato dai riflettori di Hollywood dopo un doloroso divorzio ed una spiacevole molestia sessuale ai suoi danni da parte di un membro della Hollywood Foreign Press Association; lui, che nel tempo aveva scelto la reclusione mediatica e l’aumento di peso in barba al suo passato da sex symbol, che aveva prediletto piccoli ruoli secondari in film e serie televisive prima dell’offerta generosa di Darren Aronofsky. Sì, Fraser era perfettamente consapevole del peso emotivo nell’interpretare il protagonista recluso di The Whale. Quel ruolo doveva essere suo, e così è stato.
Gli occhi dell’amore
Nell’ultimo, appaludito film di Aronofsky, Fraser dona tutto se stesso, oltre l’appariscente magia del trucco prostetico: elemento fortemente invasivo eppure essenziale nella drammaturgia del racconto di The Whale, il make up ingigantisce le proporzioni e la presenza scenica di Charlie senza diminuirne però il peso emotivo. Vera e propria ancora sentimentale per lo spettatore, il recluso professore interpretato dall’attore canadese acquisisce valenza narrativa nel rapporto che ha con lo spazio e con le persone che di volta in volta popolano il suo claustrofobico appartamento: dalla problematica figlia Ellie (Sadie Sink) alla fidata infermiera Liz (la candidata alla statuetta Hong Chau), dalla ex-moglie Mary (Samatha Morton) all’insistente predicatore poco più che adolescente (Ty Simpkins) che viene a fargli visita frequentemente, il Charlie di Brendan Fraser sprizza umanità e compassione oltre le ingombranti apparenze.
Grazie ad un linguaggio cinematografico essenziale fatto di primi, primissimi piani e raccordi di montaggio privi di vuoto virtuosismo, Aronofsky sposta l’attenzione emotiva del racconto sui volti dei suoi protagonisti; in particolar modo, la telecamera indugia spesso e volentieri sugli occhi di Charlie, ferina e commovente concretizzazione del percorso di redenzione che decide di intraprendere il protagonista con i fardelli del suo passato e con la figlia Ellie, con la quale vorrebbe riappacificarsi prima che le sue precarie condizioni patologiche possano fermargli il cuore.
Ha inizio la “Brenaissance”?
Oltre il trucco, semplicemente Brendan Fraser. Un attore che decide di indossare chili di make up prostetico per mettere in scena con sconvolgente onestà intellettuale un atto di denudazione interiore che chiosa ironicamente con l’aspetto fisiognomico del personaggio che decide di interpretare sul grande schermo. Del resto, è così che l’interprete de La Mummia e George Re della Giungla decide di tornare alla ribalta, “indossando” in multipli sensi il peso della coscienza di Charlie, vestendolo non solo della sua sorprendente malleabilità recitativa ma donandogli un ritratto cinematografico pregno della sua esperienza privata.
L’esempio professionale di Brendan Fraser in The Whale (ruolo che gli è già valso un Critics’ Choice Award e una candidatura all’Oscar), esemplifica alla perfezione la concezione di “arte che imita la vita”; con buona pace dei percorsi autobiografici intrapresi anni prima dal già citato Mickey Rourke nel The Wrestler sempre di Aronofsky, o dal Michael Keaton sornione ed autoreferenziale del Birdman di Inarritu. Al di là dei possibili risultati degli Academy Awards, c’è da scommettere che la “Brenaissance” auspicata dai fan più calorosi dell’attore canadese e dei suoi più fedeli estimatori sarà comunque difficile da fermare.