Era il 13 ottobre del 1972 quando debuttava nelle sale italiane Cabaret, secondo lungometraggio dietro la macchina da presa per il talentuoso coreografo e leggenda di Broadway Bob Fosse. Tratto dal musical omonimo di John Kander e Fred Ebb del 1966, a sua volta ispirato al romanzo semi-auotobiografico Addio a Berlino di Christopher Isherwood, Cabaret è considerato da molta parte della critica statunitense come l’ultimo, grande musical americano. E per una buona ragione.
Sono passati ben cinquant’anni dall’uscita in sala di questo straordinario film vincitore di 8 premi Oscar, e per celebrare questo importantissimo anniversario abbiamo deciso di ripercorrere i grandi temi e le innovazioni narrative che rendono ancora oggi il capolavoro di Bob Fosse rivoluzionario, attuale e insospettabilmente trasgressivo.
Wilkommen, Bienvenue, Benvenuti
Il film si apre con il riflesso frastagliato di uno specchio; all’interno delle sue prismatiche immagine grottesche, si riflette un mondo eterogeneo sull’orlo del baratro, ma imbevuto di energica joie de vivre. A dare il benvenuto allo spettatore è l’enigmatico Maestro delle Cerimonie (Joel Grey), con un numero musicale di apertura che ci introduce alle trasgressive meraviglie del Kit Kat Club, un locale notturno della Berlino del 1931 dove tutto è ancora concesso. Il club sarà il palcoscenico ideale per la curiosa storia d’amore che nasce tra Brian Roberts (Michael York), accademico inglese bisessuale che arriva nella capitale tedesca in cerca di lavoro e fortuna, e la svampita ma talentuosa starlet del Kit Kat Club, Sally Bowles (Liza Minnelli). Sullo sfondo, una Germania in rapido declino, dall’imminente caduta della libertina Repubblica di Weimar all’ascesa del Nazionalsocialismo di Adolf Hitler.
Non è dunque un caso che il musical originario di Kander ed Ebb sia stato fonte di inesauribile ispirazione per il regista Bob Fosse, reduce dal semi-insuccesso del suo Sweet Charity, remake in chiave musicale di Le notti di Cabiria di Fellini. Fosse affonda i suoi denti prima sul materiale letterario di Isherwood, poi sul libretto musicale di Kander ed Ebb, dando alla luce un lungometraggio rivoluzionario e avanti anni luce sui tempi. Un capolavoro di straziante e malinconica attualità anche cinquant’anni dopo.
Un musical scandaloso
Cabaret è un musical scandaloso? Di sicuro alla sua uscita fece un tale clamore che diventò un caso cinematografico senza precedenti. Curioso è però notare come già nel 1972 la pellicola di Bob Fosse venne tuttavia accolta da un’insospettabile ondata di lodi da parte della critica e del pubblico nonostante le tematiche affrontate. Come per le pagine scritte il secolo scorso da Isherwood, anche nel Cabaret di Fosse si celebra l’impareggiabile libertà artistica e sessuale della Germania a cavallo tra gli anni ’20 e gli anni ’30; in filigrana, le provocazioni trasgressive della fluidità sessuale del Kit Kat Club e il viaggio di auto-consapevolezza di Sally e di Brian.
In fin dei conti, la riduzione cinematografica di Bob Fosse può essere efficacemente letta anche come viaggio verso la liberazione sessuale di Brian, il suo protagonista maschile; trasferitosi dalla Gran Bretagna a Berlino con le migliori intenzioni, si lascia “rapire” dall’aplomb di Sally Bowles mettendo in discussione una volta per tutte il suo stesso orientamento e intraprendendo una relazione sentimentale con una donna, dopo anni di fallimenti con il gentil sesso. Un racconto di auto-consapevolezza che si muove e si tramuta di pari passo con le trasformazioni politico-sociali della Repubblica di Weimar, un vero e proprio potpourri di suggestioni e riflessioni storiche che il regista americano prende in mano come meglio avrebbe potuto fare: a passo di danza.
Un capolavoro LGBTQ?
Da molti considerato negli anni come uno tra i più trasgressivi capolavori nella storia della settima arte, Cabaret è un precursore del cinema LGBTQ a tutti gli effetti, nel suo aver saputo amalgamare con spirito giocoso e a tratti provocatorio l’atmosfera di incredibile libertà sessuale della Berlino del 1931; come lo specchio rifrangente che dà il via al lungometraggio nei suoi primissimi secondi, il Kit Kat Club diventa riflesso grottesco e deformato di una realtà che all’esterno sta per cambiare. “Lasciate i vostri problemi fuori dalla porta!” afferma il sibillino Maestro delle Cerimonie nel suo primo numero musicale, lasciando presagire quanto il locale notturno sia l’ultimo baluardo di una strenua ma silenziosa resistenza idealista nei confronti del totalitarismo in ascesa.
Ebrei, comunisti, minoranze etniche e sessuali, nessuno rimane impunito nella capitale tedesca, in attesa di un burrascoso vento di cambiamento che avrebbe trascinato nel baratro dell’intolleranza e della guerra l’Europa intera di lì a poco. Un disastroso e malinconico ritratto di una fin du siécle che Bob Fosse mette in scena spolpando le ultimissime ossa del musical americano e chiudendone idealmente la stagione gloriosa.
La vita è un cabaret, vecchio mio!
Per tale motivo si può affermare che il Cabaret di Fosse abbia concluso la grande stagione del musical statunitense, almeno fino al grande ritorno in pompa magna nei primi anni del 2000 con l’esperimento eterogeneo del Moulin Rouge! di Baz Luhrmann e con il citazionista e nostalgico Chicago di Rob Marshall. Il maestro coreografo di Broadway si posiziona dietro la macchina da presa e realizza un anti-musical che celebra con inarrivata potenza il fascino del cabaret declinato a mero e scanzonato palcoscenico (allegorico e al contempo concreto) dei grandi cambiamenti storico-sociali di un’Europa sull’orlo del precipizio.
Bob Fosse, cosciente dell’ingombrante incarico affidatogli in cabina di regia, dà alla luce un inno cinematografico febbrile e allo stesso tempo sfrenato alla gioia di vivere di un’epoca incredibilmente inclusiva e tollerante prima della sua disfatta; suggestioni che sembrano riverberare in maniera ciclica anche negli avvicendamenti storici più recenti, conferendo all’anti-musical del 1972 un’aura tremendamente contemporanea. Così come si era aperto il film, così si chiude Cabaret, con il riflesso deformato dallo specchio del night club dal quale si riescono a scorgere alcune uniformi naziste tra il pubblico. E allora è veramente tempo di cantare l’ultima canzone, mettere in scena l’ultima, trasgressiva coreografia sul palcoscenico prima che il velo della decenza e della tolleranza cada definitivamente.
Un film con il quale specchiarci, nonostante i cinquant’anni trascorsi dal suo debutto, non è poi così difficile.