Nella penombra del dietro le quinte del New Yorker Festival, Lydia Tár attende nervosamente di essere introdotta sul palco, dove la sua intervista con Adam Gopnik verrà aperta dal lunghissimo elenco di riconoscimenti conseguiti dalla stimata pianista, direttrice capo della Berliner Philharmoniker. Ma poco più tardi, la Lydia Tár seduta al cospetto del pubblico è una figura calma, composta, che dimostra di avere il pieno controllo di sé e di saper adoperare con impeccabile disinvoltura le proprie doti di affabulatrice, parlando del suo lavoro con serietà e passione, ma pure con un filo d’ironia. E a incarnare la complessità della protagonista, la perfetta sintesi delle sue contraddizioni, è una monumentale Cate Blanchett: in Tár, opera del ritorno al cinema del regista e sceneggiatore Todd Field a sedici anni da Little Children, l’attrice cinquantatreenne dipinge un ruolo consacrato come la punta di diamante di una carriera già di per sé strepitosa.
Lydia Tár, il cui talento smisurato si accompagna a una sottile spregiudicatezza, è un personaggio che calza come un guanto alla diva australiana, e scritto non a caso da Todd Field appositamente per la Blanchett. Nata e cresciuta a Melbourne, da madre australiana e padre texano, Catherine Elise Blanchett si è imposta del resto come una delle più straordinarie interpreti dell’ultimo quarto di secolo, prima sui palcoscenici australiani e poi, a partire dal 1997, anche sul grande schermo. Dalla fama internazionale nella parte della sovrana d’Inghilterra in Elizabeth, Cate Blanchett si è rivelata un’attrice versatile e camaleontica, rievocando il piglio anticonformista di Katharine Hepburn in The Aviator e l’elusività sfrontata di Bob Dylan in Io non sono qui, per approdare poi al vortice autodistruttivo della Blue Jasmine di Woody Allen, che nel 2013 le è valso il suo secondo Oscar, e al fascino ineffabile della Carol di Todd Haynes.
Ritratto di un’icona fra ambiguità e carisma
Ma perfino più intensa, magnetica e sorprendente è la sua performance in Tár, per la quale ha ricevuto il Golden Globe e la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia 2022 e che la vede in lizza per l’Oscar come miglior attrice, una delle sei nomination attribuite al film di Todd Field. Perché se in Blue Jasmine, altro ruolo-simbolo della sua filmografia, Cate Blanchett disegnava la sua versione di una donna in crisi partendo dall’archetipo della Blanche DuBois di Un tram che si chiama Desiderio, la sfida intrapresa con Tár è ancora più ardua. In questo caso, infatti, la Blanchett deve tracciare la parabola di una protagonista che dell’ambiguità ha fatto il proprio tratto distintivo, lasciando allo spettatore il compito di riempire le ellissi e di rispondere agli interrogativi legati alle responsabilità morali di Lydia. Uno su tutti: qual è stato il peso delle sue azioni nel suicidio della ex pupilla Krista Taylor? Ed è forse la sagoma di Krista che, per una frazione di secondo, si materializza nell’appartamento di Lydia, come uno spettro in cerca di vendetta?
Coniugando lo scrupoloso realismo della prima parte agli elementi onirici e surreali che, passo dopo passo, sembrano incrinare la rigorosa scansione delle giornate di Lydia, Todd Field costruisce le due ore e mezza di racconto attorno a questa direttrice d’orchestra assurta al rango di icona, facendo sì che il nostro sguardo aderisca appieno alla sua prospettiva. Pertanto, risulta impossibile conservare una distanza ‘critica’ rispetto a Lydia; a maggior ragione se si considera che, a prestarle volto e voce, è un’interprete di tale statura. In tal senso, un aspetto-chiave del personaggio consiste nel suo carisma, nella capacità di catturare e mantenere la nostra attenzione così come quella dei musicisti che ha il compito di dirigere; e di riuscirci con assoluta spontaneità, ammantandosi di una sprezzatura che Cate Blanchett fa trapelare ad ogni occasione, dalla sua attesa al tavolo di un ristorante alle prove con l’orchestra per la Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler.
L’idolo (infranto) di una sublime Cate Blanchett
Ma per una protagonista mai del tutto decifrabile, e per di più ben consapevole dell’autorevolezza di cui è rivestita, era essenziale offrire sfumature ulteriori, inclusa una nota di studiata teatralità. E la scena della lezione tenuta da Lydia Tár alla Juilliard, girata tutta in un unico piano sequenza, ce ne fornisce un esempio magistrale, oltre a rappresentare un’autentica masterclass di recitazione. In un confronto inesorabilmente impari con uno studente di nome Max, refrattario a dedicarsi alla musica di Johann Sebastian Bach per ragioni puramente ideologiche, Lydia sfodera una retorica in cui l’affilato sarcasmo delle argomentazioni si sposa a una genuina dedizione alla causa: «Adesso, ragazzi miei, adesso è il momento di dirigere la musica che richiede davvero qualcosa da voi», è l’enfatico invito rivolto agli allievi; «la musica che conoscono tutti, ma che ascolteranno in maniera differente quando la interpreterete per loro».
La sicurezza di Lydia, pur nei suoi accenni di egocentrismo e di arroganza, si fonda d’altronde su un’intelligenza lucidissima, talvolta addirittura implacabile: un’intelligenza correlata alla coscienza del proprio potere, ma che tuttavia non basta a metterla al riparo dalle ombre che si annidano nella sua mente. E all’interno di un film magnifico, il cui ritmo subisce una progressiva accelerazione assumendo i contorni di un thriller psicologico, il ritratto di Cate Blanchett inizia a far emergere in superficie inquietudini e ossessioni di questa enigmatica antieroina: una donna solleticata dall’idea di far leva sulla propria posizione, che si tratti di sedurre una nuova adepta o di torreggiare con fare minaccioso su una compagna di scuola della figliastra («Dio osserva tutti noi»), ma che forse non è ancora pronta a fronteggiare le conseguenze delle sue scelte, né tantomeno l’ipotesi di ricostruirsi un’esistenza a partire dai frammenti di un idolo infranto.