L’entrata in scena di Cleopatra nel kolossal omonimo di Joseph L. Mankiewicz del 1963 è memorabile: non in pompa magna come ci si aspetterebbe, bensì rotolando fuori da un tappeto, dopo essere stata trasportata dal fido servo Apollodoro e consegnata in ‘dono’ a Cesare. Sebbene riversa a terra, gli occhi fumanti e fieri di Liz Taylor ci dicono subito che il personaggio non è affatto abituato a stare in quella posizione. Nonostabte la prima volta in cui vediamo Cleopatra sia una scena quasi intima, il resto del film fa sfoggio di una magniloquenza che ha pochi eguali nella storia del cinema. Famigerati sono infatti i vertiginosi costi di produzione a cui andò incontro, a causa di scelte a dir poco scellerate fatte in fase di pre-produzione e di riprese. Infatti Cleopatra, il film scritto dallo stesso Mankiewicz in collaborazione con Ranald MacDougall e Sidney Buchman, da lui stesso diretto, con Elizabeth Taylor nel ruolo della regina d’Egitto, Richard Burton in quello di Marcantonio e Rex Harrison come Giulio Cesare, viene ricordato come la produzione che, con i suoi 44 milioni di dollari (corrispondenti a 300 attuali!), quasi affondò la 20th Century Fox.
In realtà il film andò molto bene come incassi, ma i costi erano stati talmente alti che per andare in attivo si dovettero attendere i diritti di sfruttamento televisivi e le successive riedizioni in sala. La turbolenta e leggendaria produzione che portò alla realizzazione di Cleopatra potrebbe diventare un film a sua volta e, forse, solo l’aura maledetta che lo circonda ha frenato finora scrittori, registi e produttori dal costruirci sopra un film oppure una serie. Va anche detto però che il kolossal di Mankiewicz è un grandioso spettacolo per gli occhi, sorretto da interpretazioni leggendarie e da una sceneggiatura raffinata, ricca di approfondimenti psicologici, in cui non ci sono buoni né cattivi, ma solo diverse sfumature di umanità in cerca di amore e potere, dove i due campi finiscono per intrecciarsi in modi indissolubili e insospettabilmente attuali. Mentre la nuova docu-serie su Cleopatra prodotta da Netflix fa discutere molto di sé, ci sembra affascinante tornare a parlare del film che, a metà del secolo scorso, riportò la più famosa regina d’Egitto ai fasti che merita.
Rifacciamo Cleopatra, che ci vuole?
Cleopatra è stato concepito nell’isteria, girato nel casino, montato nel panico: le franche parole di Mankiewicz sul suo film danno un’idea riguardo il clima in cui è stato realizzato. L’allora presidente della Fox Spyros Skouras, commissionò il dirigente David Brown di scovare un copione, tra i tanti già realizzati nel passato, per farne una pellicola moderna che risollevasse le sorti economiche della Fox, in difficoltà a causa della concorrenza televisiva. Brown ebbe l’idea di riesumare il copione del film muto del 1917 su Cleopatra con Theda Bara, terribilmente audace per l’epoca, già rifatto da Cecil B. De Mille nel 1934, e adattarlo ai tempi moderni, ovvero la fine degli anni ’50. A quel punto era necessario trovare un produttore e l’unico che volle accollarsi il progetto fu Walter Wanger, scafato produttore della Hollywood degli anni ’30 e ’40, la cui carriera era ormai in declino.
In effetti Wanger non era proprio un tipo tranquillo: quando fu tradito dalla moglie, l’attrice Joan Bennett, non esitò a sparare all’amante nelle parti basse e fu una fortuna che il tipo, agente della Bennett, non morì. Dopo 4 mesi di galera Walter uscì, ma la sua carriera ne risentì e si dedicò per lo più a produzioni di serie B, tra cui spicca però quel gioiellino de L’invasione degli ultracorpi. Riuscì però a fare un bel colpo con la produzione, sempre Fox, di Non voglio morire (1958), film per il quale la protagonista, Susan Hayward, vinse l’Oscar, ringraziando pubblicamente Wanger durante la premiazione. Tornato in sella, non gli sembrò vero dunque di poter lavorare di nuovo con una produzione di serie A come Cleopatra, in cui ci mise l’anima, ma ci rimise anche la salute. L’ingenuità iniziale consistette nel fatto che si credette di poter rifare Cleopatra con poco, senza rendersi conto che le soluzioni narrative e visive della versione muta non erano più proponibili e che il pubblico era diventato per forza di cose più esigente.
Liz!
Vitale fin dall’inizio fu trovare l’attrice giusta: se in un primo momento si pensò a Susan Hayward, come accennato fresca di un Oscar, oppure Joan Collins, Audrey Hepburn o la stessa Elizabeth Taylor. Si arrivò addirittura a un ballottaggio tra la Taylor e la Hepburn, che fu sciolto da un questionario proposto dalla Fox ai proprietari dei cinema in cui si chiedeva di scegliere tra le due. Vinse l’affascinante, brava e imprevedibile Taylor, che riuscì a strappare un contratto da un milione dollari, cifra mai vista prima di allora per un solo ruolo. L’altra ingenuità dei produttori fu però di assicurare alla Taylor 50.000 di dollari in più per ogni settimana di straordinari, in cui si fossero sforati i tempi previsti di produzione. Alla fine il cachet di Liz lievitò fino alla astronomica cifra di 7 milioni di dollari. Infine la Taylor impose, tra le clausole del contratto, di girare all’estero.
Perché non giriamo a Londra? Che può succedere?
Ma la scelta più scellerata effettuata in fase di produzione fu, in un primo momento, di girare nei Pinewood Studios di Londra che permettevano dei vantaggiosissimi sgravi fiscali. Ovviamente i set esterni dell’antica Roma e di Alessandria d’Egitto, costruiti non certo in cemento armato, si deterioravano in un batter d’occhio col tipico clima umido e piovoso inglese, per non parlare delle palme e dell’altra vegetazione portata lì apposta. Ci si mise anche la cagionevole salute della Taylor che si prese un’influenza asiatica, trasformatasi poi in una grave polmonite, che la portò addirittura vicina alla morte, con una corsa d’urgenza in ospedale dove le fu praticata una tracheotomia per salvarla.
Inutile dire che a questo evento seguì un lungo periodo di convalescenza durante il quale la diva tornò in America, dove tra l’altro vinse anche un Oscar per Venere in visone, ricevuto con una voce ancora roca e stentata, ma soddisfatta. Nel frattempo a Londra si giravano le scene senza la regina ma ad un certo punto non fu più possibile andare avanti e, con i set costruiti, troupe e attori in attesa, i costi lievitarono, invano, alla cifra di 100.000 dollari al giorno. Ben poco poté fare il primo regista ingaggiato dalla Fox per questa follia, ovvero il pur bravissimo Rouben Mamoulian, autore di notevoli capolavori degli anni’30 come il primo Dottor Jekyll e Mister Hyde sonoro, che aveva anche provato a protestare contro la scelta di Londra. Anche gli attori che dovevano inizialmente incarnare Cesare e Antonio, ovvero Peter Finch e Stephen Boyd, se ne andarono. Tutto il materiale girato a Londra non servì a nulla.
Si ricomincia sotto il Colosseo
Si decise saggiamente di ricominciare le riprese in un paese dal clima migliore e accogliente: indovinate quale? Se state pensando alla Hollywood sul Tevere siete ovviamente nel giusto. In quegli anni Cinecittà e dintorni era un pullulare di produzioni americane di ambientazione storico/mitologica soprannominati peplumù o, più popolarmente, sandaloni, dalle calzature che indossavano gli attori sui set. Alcune scene, come la battaglia navale di Azio, furono girate a Ischia Ponte. Se da un lato dunque il clima migliore favoriva il lavoro nei set esterni, dall’altro la rilassatezza che serpeggiò tra attori, tecnici e comparse non giovò ai costi che continuarono a lievitare per sprechi assurdi e mancanza di coordinazione nell’organizzazione delle scene imponenti. Giusto per fare un esempio, venivano spesi sui 250.000 dollari (!) a settimana in acqua minerale, tra troupe e migliaia di comparse. Per non parlare delle ville assegnate agli attori principali, autisti personali e altre amenità, nonché spese personali infilate nel budget di stramacchio. La produzione continuò dunque all’insegna dell’eccesso e della mancanza di controllo e lo stesso Wanger non riuscì a tenerne le redini, dopo che il suo manager di produzione di fiducia, Johnny Johnston, morì d’infarto per lo stress. Sebbene formalmente Wanger ricoprisse ancora il ruolo di produttore esecutivo, lasciò di fatto la responsabilità in mano al nuovo regista.
Mankiewicz!
Nel frattempo la Fox aveva ingaggiato Joseph L. Mankiewicz, fratello di Herman (autore dello script di Quarto potere, incarnato recentemente da Gary Oldman in Mank), rinomato regista di capolavori del calibro di Eva contro Eva, vincitore di 6 Oscar nel 1951 tra cui miglior film e regia, nonché del Giulio Cesare (1953) con Marlon Brando e del bellissimo, ossessivo e psicanalitico Improvvisamente l’estate scorsa (1959), con la stessa Taylor. Fu infatti quest’ultima a proporre Mankiewicz alla Fox, disgraziatamente per lui. Parliamo in questi termini perché anche Mankiewicz ci rimise molta salute a causa di questo film. Per prima cosa decise di riscrivere completamente la sceneggiatura, giudicata troppo semplicistica. Ma poiché i tempi di produzione stringevano le riprese re-iniziarono con la scrittura ancora in corso: questo significò che di giorno il nostro Mankiewicz era impegnato nelle riprese e la notte nella scrittura. Dovette infatti andare avanti a furia di iniezioni varie, sulla cui natura non indagheremo.
Galeotto fu il set
Mentre la produzione procedeva un altro fulmine si abbatté sul set e cioè la passionale storia d’amore scoppiata tra Richard Burton e Liz Taylor, all’epoca entrambi sposati con altre persone. Se una cosa del genere oggi non avrebbe fatto altro che rinfocolare l’attenzione sulla produzione, cosa che in effetti successe con i tabloid che si riempirono di foto rubate e servizi dedicati, d’altro canto nei bigotti primi anni ’60 la cosa fu vista molto male. A conferma della ipocrita mentalità del tempo, violenti strali furono lanciati da più parti, soprattutto riguardo la moralità della Taylor, che era anche madre.
Essendo nata in Inghilterra e avendo la doppia cittadinanza (inglese e statunitense), fu denunciata al Congresso, dove alcuni deputati volevano toglierle il passaporto. Intervenne perfino il Vaticano che la accusò di essere un cattivo esempio e sostenendo che avrebbero dovuto toglierle i figli. Se non altro quando la pellicola fu poi lanciata nelle sale, la curiosità del pubblico di vedere la coppia interagire davanti alla macchina da presa fece il gioco del film.
E il produttore Wanger? Era stato licenziato nell’ultima fase delle riprese, ma decise di rimanere comunque a Roma a sue spese perché voleva finire il film a tutti i costi. Ne fu molto amareggiato e, qualche anno dopo, nel 1969, morì di infarto.
Le scene perdute
Mankiewicz era convinto di montare e proporre due film della durata di tre ore, per un totale di 6 ore di montaggio definitivo. Ma Darryl F. Zanuck, storico fondatore della Fox subentrato a Skouras, non era della stessa idea perché si doveva recuperare al più presto gli osceni costi di produzione: questo voleva dire un solo film di una durata che non eccedesse le tre ore, per consentire agli esercenti di proiettarlo un minimo di volte nell’arco di una giornata. Mankiewicz protestò e Selznick lo licenziò. Ma poiché si rese conto che soltanto Mankiewicz poteva venire a capo delle centinaia di ora di girato, lo reingaggiò offrendogli un bel compenso. Si arrivò dunque a una versione di 243 minuti che però fu proiettata solo all’anteprima mondiale di New York, il 12 Giugno 1963.
Il film fu ridotto poi a 217 minuti per la successiva premiere di Los Angeles, per essere infine tagliato ulteriormente a 192 minuti nella versione che circolò in tutte le sale, con grande dispiacere di Mankiewicz. Delle scene mancanti si perse poi traccia. Negli anni ’90 furono incredibilmente scovate delle pizze ad Hutchinson in Kansas, in una miniera di sale, dove non c’era l’umidità ad intaccare la pellicola. Grazie al ritrovamento, con l’uscita del dvd nel 2000, si ripristinò la versione di 243 minuti e, reintegrando poi qualche altra scena ritrovata in seguito, con l’edizione in blu-Ray del 2012, si arrivò alla durata di 251 minuti. Non si sa che fine abbiano fatto le altre quasi due ore mancanti di film. Potrebbero essere conservate in qualche polveroso magazzino come quello del finale de I predatori dell’arca perduta, in attesa di essere riscoperte.
Ma com’è Cleopatra?
Alla luce di tutto questo, ciò che successe sul set si ‘mangiò’ letteralmente Cleopatra e quelle che erano le sue qualità filmiche. Se però proviamo per un attimo a dimenticare la parossistica produzione, ciò che rimane è un grandioso e spettacolare affresco storico, che racconta un’immortale storia di amore, corruzione e potere, terribilmente attuale, sostenuta da dialoghi sferzanti e interpretazioni iconiche e indimenticabili. Liz non interpretava semplicemente Cleopatra ma era la regina d’Egitto. Con il suo carattere, volitivo, forte e al tempo stesso fragile, fu perfetta nell’incarnare i desideri, le paure, le intemperanze e le aspirazioni di una donna di potere in un mondo prettamente maschile. Ma non è solo in questo che Cleopatra diventa terribilmente attuale. È nella schietta rappresentazione degli intrighi politici e dei giochi di potere, e sesso, che si svolsero tra la Roma imperiale e il decadente Egitto del I secolo AC che il kolossal di Mankiewicz non ha nulla da invidiare a un Trono di spade.
L’ambiguità dei personaggi, il ritratto impietoso delle loro debolezze ce li rende vicini e comprensibili: Giulio Cesare condottiero umano e magnanimo da un lato, che inorridisce quando gli presentano la testa del suo nemico Pompeo privato di dignità nella morte, ma che dall’altro soccombe alle sue stesse ambizioni politiche e al suo delirio di onnipotenza; Marcantonio che non si libererà mai dell’ombra di Cesare, vivendo una cronica competizione con un fantasma e che troverà nell’amore di Cleopatra il pungolo necessario a soddisfare le sue ambizioni, ma anche l’ottundimento che lo porterà ad abbandonare i suoi uomini durante la battaglia di Azio. Infine Cleopatra, passionale e al tempo stesso strategica, imprevedibile eppure razionale, innamorata di Cesare e forse solo convenientemente appassionata di Marcantonio? Tutte queste ambiguità rendono il film complesso, non banale, ricco di sfumature e avvincente. Per non parlare dell’impianto spettacolare: la scena dell’arrivo di cleopatra a Roma rimane tra le più iconiche della storia del cinema. Dopo l’esibizione di elefanti, ballerine succinte, carri con sorprese all’interno, arriva l’enorme sfinge che trasporta il trono della regina d’Egitto attraverso il monumentale arco di Traiano, sotto gli occhi stupefatti dei senatori e del popolo.
Cleopatra sembra una statua d’oro mentre migliaia di schiavi (in realtà comparse romane) tirano e spingono l’enorme monumento se-movibile. Mentre succede tutto questo parte la marcia del compositore Alex North che non è solo sontuosa o esotica. North ci fa respirare, con l’uso degli strumenti a fiato, la minaccia che Cleopatra porterà col suo ingresso a Roma. Tramite le sonorità e l’andamento ritmico ci sembra di vedere un serpente che avanza sinuosamente, portatore di eventi che sconvolgeranno l’equilibrio politico della città eterna. Tutto questo solo con la musica. Cleopatra riusciva dunque a fondere alta spettacolarità con una raffinatezza nella messa in scena, nella scrittura, nelle interpretazioni, nonché in ogni aspetto della produzione, in un modo che oggi ci sogniamo. Sarebbe davvero auspicabile che gli attuali blockbuster riuscissero a coniugare profondità e complessità di sceneggiatura con la spettacolarità visiva cui siamo ormai abituati, per non dire assuefatti. Gli unici cineasti contemporanei che ci riescono, in modo molto personale, e che ancora portano il pubblico nelle sale, sono Christopher Nolan e Dennis Villeneuve, di cui attendiamo speranzosi i prossimi Oppenheimer e Dune Parte 2.