Lo sviluppo di un pensiero critico nei riguardi di un’opera assume una dimensione più ampia e approfondita se essa viene inserita all’interno della produzione del suo autore. È chiaro che un film può essere preso e giudicato come opera singola. Ma è indubbio che guardare lo stesso, tenendo conto del background del suo autore, ci regala un altro tipo di spessore. Una serie di chiavi di lettura, sfumature, cambiamenti progressivi (o regressivi) di sensibilità. O ancora: differenze nella grammatica filmica, una ricerca maggiore o minore d’eleganza, sperimentazioni tecniche e così via. D’altronde cambiamo noi come spettatori esattamente come cambia lo sguardo e l’approccio all’arte, al racconto e all’umanità degli autori. Per questo motivo occasioni rare e preziose come la Park Chan-week rappresentano una possibilità importante da cogliere.
L’opportunità di recuperare in sala (!) tutta la filmografia di uno dei più importanti autori cinematografici contemporanei prima di ammirare Decision to Leave, la sua nuova opera. Anche perché l’ultimo film di Park Chan-wook, premiato a Cannes per la Miglior Regia, non è solo uno dei migliori film che potrete apprezzare quest’anno. È un ulteriore tassello di un mosaico ampio e in continua mutazione. Pensiamo a quegli esperimenti in cui una persona si fotografa ogni giorno e poi dispone tutti gli scatti su una parete. Osservandole vediamo lo stesso soggetto, eppure si nota un progressivo cambiamento foto dopo foto. Ecco, il cinema dell’autore sudcoreano segue un percorso simile. Un continuo guardare e descrivere l’essere umano con le sue storture, i suoi scontri e le sue pulsioni ma cambiando costantemente l’angolo di osservazione, il punto su cui focalizzarsi, la tecnica con cui rappresentarlo. Scopriamo quindi cosa rende grande e com’è cambiato negli anni il cinema di Park Chan-wook.
La tragedia tra conflitti esterni e conflitti interni nel cinema di Park Chan-wook
Ogni struttura drammatica necessita, alla sua base, di un conflitto. Un elemento cardine in grado di generare tensione, di accendere il motore narrativo ed emotivo della storia e di dar vita a un cambiamento nei personaggi e negli eventi. Nel cinema di Park Chan-wook il conflitto ha però saputo vestire varie forme, incuneandosi all’interno delle sue opere in modi differenti. Nella prima fase della sua carriera nasce da tensioni esterne, da entità o personaggi che si oppongono l’uno con l’altro. Prima di prendere ad esempio il suo terzo lungometraggio JSA – Joint Security Area, diamo un attimo di contesto. Fino a quel momento Park Chan-wook aveva realizzato altri due lungometraggi (Moon is… the Sun’s Dream e Trio), entrambi dei sonori flop tanto che le poche recensioni uscite erano dello stesso regista che le scriveva sotto pseudonimo. Con la carriera ferma a un palo, cerca di smuovere le acque buttandosi su un cortometraggio intitolato Judgment. L’operazione riscuote un ottimo interesse tanto che gli viene affidato la trasposizione ad alto budget del romanzo DMZ di Park Sang-yeon. Siamo nel 2000, in piena sunshine policy (politica estera della Corea del Sud volta a diminuire la tensione con i vicini del Nord) e alle origini del blockbuster sudcoreano, nato ufficialmente l’anno precedente con Shiri. Joint Security Area, thriller che parla di misteriosi omicidi avvenuti nella zona demilitarizzata (DMZ) tra le due coree, diventa il più grande incasso della storia del paese e un incredibile trampolino di lancio per Park Chan-wook.
Il film si apre con una ripresa di Panmunjom, il villaggio al centro della DMZ e unico luogo in cui i soldati e i rappresentati delle due coree possono incontrarsi. In pochi minuti ecco che Park Chan-wook ci presenta il conflitto attorno cui si costruirà tutta l’opera. Una tensione tra entità esterne (i due paesi) e personaggi che ne fanno le veci e incarnano i limiti di un popolo unico, storicamente e politicamente diviso all’interno della stessa penisola. I due film successivi continueranno a mettere in mostra una conflittualità esterna. Si tratta di Mr. Vendetta e Old Boy, primo e secondo capitolo della ormai nota Trilogia della Vendetta. In entrambi vediamo Park Chan-wook descrivere un protagonista inetto pronto a iniziare una personale e truce discesa nell’abisso morale. Ambedue si ritroveranno poi a scontrarsi con un’altra figura (sempre maschile) e da questo conflitto nascerà la tragedia alla base delle due opere. Lo schema – o meglio lo sguardo dell’autore – subirà un decisivo cambiamento a partire di Lady Vendetta. La tensione in questo caso non è più tra entità esterne ma nasce all’interno della sua protagonista. Un insanabile conflitto tra la voglia di redenzione e il senso di colpa che l’attanaglia, tra l’obiettivo razionale prefissato e lo scoglio morale che si frappone nel mezzo. E in questo percorso la Lady di Park Chan-wook trascinerà la stessa società che la circonda. Emblematico da questo punto di vista la scena in cui i genitori delle vittime fanno a turno per seviziare il serial killer.
Lady Vendetta è però, come vedremo nel prossimo paragrafo, un passo fondamentale anche per la visione di Park Chan-wook del rapporto uomo-donna.
Il rapporto uomo – donna nel cinema di Park Chan-wook
In un’intervista rilasciata durante il Florence Korea Film Fest del 2017, Park Chan-wook ha dichiarato: “Adesso faccio film femminili. Tutti abbiamo un lato maschile e uno femminile, solo che gli uomini non vogliono vedere il loro lato femminile. Ma se lo accetti, la vita migliorerà“. Un percorso mentale del regista sudcoreano che inizia, come detto, a partire da Lady Vendetta. Non che le opere precedenti siano prive di donne, anzi. Eppure il ruolo a loro riservato non è mai davvero centrale. Ricoprono, quando non sono vittime degli eventi, la funzione di veri e propri mcguffin. Motori narrativi più o meno visibili senza però una centralità vera e propria nei conflitti messi in scena dal regista. Il cambiamento di Lady Vendetta si vede già dalla locandina con Lee Geum-ja mostrata quasi a richiamare l’iconografia cristiana riservata alla Vergine Maria. Mutazione che si concretizza definitivamente con il concretizzarsi del suo viaggio di redenzione e vendetta che culmina con l’assassinio del “suo” uomo. I film successivi proseguono il percorso tracciato: nell’esperimento I’m a Cyborg But, That’s OK l’uomo rappresenta una fonte d’equilibrio per la donna; in Thirst, dove il rapporto tra i protagonisti non è divorante solo fisicamente ma va a erodere tutti i punti fermi dei due; in Stoker si ribalta la situazione vista nei primi film, con la protagonista a sfruttare l’uomo come motore di un cambiamento e sviluppo.
Il ribaltamento dello sguardo e del pensiero di Park Chan-wook arriva a un finale compimento con Mademoiselle (o The Handmaiden). Non solo perché mette al centro del rapporto due donne e un rapporto saffico. La sfumatura con Mademoiselle si fa più marcatamente concettuale, andando a porsi su un livello di lettura ulteriore. Come sappiamo il film è ambientato nella Corea degli anni ’30, periodo in cui la penisola era sotto il dominio e lo sfruttamento giapponese. La storia d’amore su cui si basa l’opera è tra due persone di nazioni differenti, una colonizzata e una colonizzatrice. Ed è proprio il gioco linguistico che si crea a regalare la chiave di lettura a cui ci riferivamo. Park Chan-wook crea una personificazione nell’uso della lingua: il giapponese diventa l’idioma maschile e il coreano quello femminile. Hideko è giapponese ma usa la sua lingua quando legge i libri erotici per lo zio e i suoi avventori. Non la ama, la considera sporca. Una volta abbandonato il suo retaggio, quando è finalmente libera, si esprime solo in coreano. La lingua femminile che lo stesso zio si troverà a utilizzare una volta perso ogni ambizione e proprietà. Ovvero quell’accettazione del lato femminile a cui fa riferimento Park Chan-wook nell’intervista con cui abbiamo aperto questo paragrafo.
La messa in scena della violenza e della carnalità nel cinema di Park Chan-wook
Fino a ora abbiamo parlato di conflitti interni ed esterni, spesso poi sfociati nel rapporto uomo-donna, nel cinema di Park Chan-wook. Ma in cosa sono sfociati e come sono stati messi in scena dal regista sudcoreano? Anche in questo caso ci troviamo davanti a un progressivo cambiamento avvenuto film dopo film. Nella Trilogia della Vendetta i conflitti trovano una risoluzione attraverso un cospicuo ricorso alla violenza. Il regista però affina, di film in film, sia la tecnica con cui la film sia il suo pensiero al riguardo. Mr. Vendetta vede ancora una mano grezza seppur vivace e la ferocia che traspare non è ritmata, ironica o piacevole. Con Old Boy viene fatto un passo in avanti in termini di sicurezza. C’è la spettacolarizzazione di ogni atto con coreografie, molti elementi a schermo e un accompagnamento musicale costante. La violenza è risolutoria e divertente per quasi tutta la durata dell’opera. In Lady Vendetta la brutalità non è più ricercata ma è necessaria. È mostrata con grande eleganza ma messa sotto una luce morale interlocutoria. Park Chan-wook solleva il dubbio sulla stessa violenza che mette in scena con tanta bellezza. È già sull’orlo di abbandonare quella strada e quindi si pone il dubbio e lo mostra a tutti gli spettatori e a tutta la società.
Con i film successivi la violenza viene affiancata all’erotismo e alla sessualità più carnale. Una fase affiancata da un’estetica più barocca del regista sudcoreano. Perfetto esempio è Thirst, liberamente ispirato a Teresa Raquin di Émile Zola. Il rapporto tra un prete diventato vampiro Sang-hyun e Tae-ju si presta a un’interpretazione carnale, estrema e violenta della sfera erotica. Estremizzazione che il regista sceglie di seguire dal punto di vista visivo con una sperimentazione tecnica che lascia (a tratti) da parte l’equilibrio e l’eleganza per seguire la via dell’eccesso estetico. Percorso seguito in parte in Stoker, l’esperimento oltreoceano non del tutto riuscito di Park Chan-wook. Qua è la carica erotica morbosa nasce dalla violenza, come si può notare nella tanto discussa scena della doccia. Infine abbiamo ancora una volta Mademoiselle, dove la sfera erotica nella sua forma più pura prende il sopravvento e dove la messa in scena abbandona gli eccessi per aderire a una visione dove è l’eleganza formale a dominare.
Cambiare tutto per non cambiare niente: Decision to Leave
Sono due i film di riferimento che Park Chan-wook ha menzionato più volte nel corso degli anni: Vertigo – La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock e Il Gattopardo di Luchino Visconti. D’altronde si tratta di un uomo che nel corso dei sessant’anni della sua vita ha visto cambiare il suo Paese in modo impensabile. Ha vissuto tre tipi di regimi dittatoriali differenti prima dell’approdo della democrazia. Ha visto la Corea del Sud passare da essere un paese arretrato al diventare una potenza economica mondiale. È cresciuto in uno stato culturalmente dipendente sia dagli Stati Uniti che dal Giappone e ora si ritrova con il movimento coreano in grado di entrare nelle case di tutti, insediando la storica posizione giapponese come cultura orientale di riferimento in Occidente. Sono evidenti i motivi per cui sia il libro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che il film di Visconti rappresentino un punto di riferimento per lui, tanto che non si fatica a trovare un rimando all’opera proprio in Mademoiselle. “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, così la nota frase di Tancredi diventata poi un diffuso modo di dire. E così è anche per il cinema di Park Chan-wook, con dinamiche in costante cambiamento ma che ruotano attorno ai medesimi fulcri. O forse a uno solo: un conflitto che da esterno diviene interno, si specchia nel rapporto uomo donna, lato maschile e lato femminile e si sfoga attraverso violenza e sessualità.
Il suo ultimo film Decision to Leave – in cui peraltro non è difficile trovare un rimando a Vertigo – La donna che visse due volte – rappresenta uno dei cambiamenti maggiori all’interno della sua filmografia e, al contempo, una perfetta sintesi di tutto ciò di cui abbiamo parlato. Abbiamo il conflitto che nasce dall’incontro tra il detective Jang e la bella Song. Una tensione che però si dipana e lavora internamente nei due protagonisti. Rimane contratta e non sfocia mai in nulla. In Decision to Leave non abbiamo la violenza. I due omicidi al centro del film vengono ripresi una volta che sono avvenuti. Non vediamo l’atto violento ma solo il suo esito: i due cadaveri. Anche nelle scene in cui il Detective si scontra con criminali non c’è ferocia, brutalità o sangue. L’attenzione è sempre spostato su altro, per la precisione sul rapporto tra i protagonisti. Lo stesso vale per quanto riguarda la carnalità. L’unico rapporto sessuale presente nel film è tra il Detective e sua moglie ed è meccanico, freddo, spogliato di ogni carica erotica. Eppure i film ha un impatto sullo spettatore e sulle sue pulsioni. È un’opera eccitante, carica di passione, sensualità e tensione. Park Chan-wook, grazie a una regia sinuosa che segue un ritmo e una fluidità che ricorda l’incedere di un fiume, mette sempre i suoi due protagonisti nella medesima inquadratura. Li tiene uniti, con tutti i trucchi e le magie rese possibili dal cinema e poi ce li toglie. Cambiare tutto per non cambiare nulla. Spoglia i conflitti di ogni orpello, ogni distrazione. Eppure ci mostra come il conflitto, la tensione, la passione, la violenza e l’erotismo siano lì anche quando non li vediamo. Quando un uomo e una donna sono davanti a noi. O quando una donna decide di andarsene e l’uomo rimane solo, spogliato della sua femminilità.