Dopo aver portato la sua opera terza Planetarium fuori concorso a Venezia nel 2016, la regista francese Rebecca Zlotowski è tornata al Lido sei anni dopo con I figli degli altri, attualmente nelle sale italiane. Un film che dopo l’esordio in laguna sta facendo il giro di altri festival, tra cui Toronto e Zurigo. E proprio in Svizzera abbiamo incontrato la cineasta per parlare del suo quinto lungometraggio.
Lavorazione pandemica
Il suo film precedente era a Cannes nel 2019, dieci mesi prima del lockdown di marzo 2020. E ha da poco presentato I figli degli altri a Venezia. Come ha vissuto il periodo tra le due anteprime?
È stato un periodo fecondo per me, a dire il vero, perché ho completato un film e sono diventata madre. Mi rendo conto che è stato difficile per molti, ma nel mio caso rimanere in casa era molto utile. Mi ha dato gli stimoli giusti sul piano professionale e privato.
Com’è stata la lavorazione? A livello strutturale la sua filmografia in generale è abbastanza a prova di pandemia…
Adoro quella definizione, “a prova di pandemia”, la approvo in pieno. È stato bello girare in quelle condizioni, da un certo punto di vista. Anche se vivo e lavoro a Parigi, non ho mai veramente filmato la città perché sono abbastanza maniacale con la costruzione dell’inquadratura, e quando giri in esterni il controllo non è mai totale. Siccome durante le riprese le strade erano deserte, ho potuto piegare la città al servizio delle inquadrature.
La scelta della bambina
Solitamente quando vediamo storie simili, soprattutto nel cinema americano, i figli degli altri tendono a essere adolescenti o quasi. Leila invece ha cinque anni, anzi, quattro e mezzo, come dice lei stessa. Perché questa scelta, che può anche essere delicata in termini di direzione degli attori?
Con gli adolescenti si tende ad andare nella direzione della commedia, ed è una cosa che volevo evitare. E dal momento che volevo parlare del desiderio di maternità, mi sembrava giusto abbassare l’età. Cinque anni mi sembrava giusto. Ed è vero che ero terrorizzata dall’idea di dirigere i bambini, ed è il motivo per cui Leila è l’argomento del film, ma non la protagonista. Così, nel caso, avrei potuto tagliare le scene con lei che non funzionavano e avere comunque una storia da raccontare.
Quanto è durato il casting per il ruolo di Leila?
Poco, a dire il vero. Ma questo vale per tutti i ruoli, non sono una patita del casting e tendo a scegliere abbastanza in fretta. Per il mio primo film mi incontrai con una sola attrice, Léa Seydoux. Non è pigrizia, semplicemente non mi impunto sull’avere la persona perfetta, soprattutto a livello estetico. Per Leila abbiamo incontrato una decina di bambine, io e la mia direttrice del casting, che è la stessa dei film di Céline Sciamma.
In effetti c’è un che dello stile Sciamma nel film, avete lo stesso approccio con gli attori più giovani.
Sono molto lusingata, anche perché io e Céline siamo molto amiche, anche se abbiamo visioni un po’ diverse del cinema.
Registi sul set
Qual è stata la sua reazione quando ha scoperto che a Venezia avrebbe gareggiato, nella corsa per il Leone d’Oro, con due degli interpreti del suo film?
Ero molto gelosa [ride, n.d.r.]. No, in realtà ero felicissima per loro. Non ho ancora visto il film di Frederick Wiseman, ma quello di Roschdy Zem è meraviglioso. Mi piace dirigere attori che sono anche registi, perché per me il cinema è un’arte collaborativa e mi stimola avere dei punti di vista diversi sul set. Non mi ricordo più chi l’ha detto, ma sono d’accordo con chi sostiene che quando i registi smettono di essere amici, il cinema di quel paese ne soffre.
Uno dei miei momenti preferiti del film è quando Wiseman dice “Eh, la vita è lunga…”
Io e lui ci siamo conosciuti a Venezia nel 2016, ci siamo incrociati in ascensore all’Hotel Excelsior. Siamo diventati amici, e quando gli ho chiesto come mai recitasse nei film degli altri ma non nei miei, lui si è subito detto disponibile. E così ho riscritto per lui la parte del dottore, dandogli anche il suo cognome.
Sto immaginando uno scenario alternativo dove al suo posto c’è un dottor Garrel o un dottor Audiard.
[Ride, n.d.r.] Magari nel prossimo film. Potrebbe essere un’idea.
Festival a confronto
Ha portato tre film a Cannes e due a Venezia. Come differiscono le esperienze dei due festival?
Dipende sempre dalla sezione in cui ti trovi. Quest’anno è la prima volta che sono in concorso, e l’atmosfera in sala è molto diversa. In generale direi che a Cannes le star sono i registi, mentre a Venezia sono gli attori. Faccio un esempio: quando sono venuta qui con Planetarium, dove recitavano Natalie Portman e Lily-Rose Depp, l’accoglienza non è stata particolarmente positiva, ma si percepiva comunque un certo affetto. A Cannes lo stesso film sarebbe stato demolito senza pietà.
Qualche anno fa ho fatto la stessa domanda a Gilles Bourdos, e lui aveva un ricordo un po’ negativo di Cannes perché il suo film era leggermente fuori fuoco.
È l’incubo di noi cineasti. Ricordo un film che ha vinto la Caméra d’Or a Cannes, alla proiezione ufficiale l’audio era fuori sincrono. E quando la mia opera prima è stata presentata alla Semaine de la Critique nel 2012, la giuria della Caméra d’Or, che era presieduta da Gael García Bernal, è uscita dalla sala a metà film. Pensavo che lo avessero odiato, invece erano andati tutti in bagno perché avevano mangiato qualcosa di indigesto a pranzo, credo delle ostriche andate a male. Poi hanno rivisto il film per intero.