Un romanzo di Stephen King, le capacità attoriali di Tom Hanks ed un personaggio incredibile la cui forte umanità si divide tra una fisicità imponente ed un interiorità arricchita per dare sollievo al dolore degli altri. Questi sono solo alcuni degli elementi che hanno caratterizzato, ed ancora lo fanno, il successo di critica e di pubblico ottenuto nel 1999 da Il Miglio Verde.
Scritto e diretto da Frank Darabont, il film è diventato un vero e proprio cult riuscendo a portare sullo schermo il rapporto umano tra un detenuto ed il proprio carceriere. Completamente ambientato all’interno del braccio della morte, costruisce un microcosmo umano intenso ed invisibile a molti. Un universo le cui fondamenta si basano su violenza ma anche su un’inaspettata tenerezza grazie al rapporto che unisce la guardia carceraria Paul Edgecombe e il condannato John Coffey, capace di andare oltre i tempi di un’esecuzione e di accompagnare il primo come un ricordo indelebile per il resto della sua vita.
Ovviamente il sottotesto del film, come del romanzo, tocca note sociale e giudiziarie molto importanti che fanno leva sul dubbio, su di una pessima giustizia e sul pregiudizio. Tutti elementi che pesano come un macigno sulla discussione in merito alla pena di morte e che vengono sublimati proprio in un epilogo destinato a commuovere e rimanere impresso per molto tempo. Proprio per questo, dunque, andiamo a vedere più nel dettaglio la spiegazione del finale de Il Miglio Verde, per comprendere al meglio il potenziale emotivo di questo cult cinematografico.
Dalla realtà alla finzione
Il personaggio centrale del romanzo firmato da Stephen King è John Coffey, un uomo di colore dalla fisicità imponente ma dall’animo rivolto sempre verso gli altri. Il suo ingresso nel braccio della morte della prigione di Cold Mountain è successivo alla condanna per aver stuprato ed ucciso due bambine bianche. Questi eventi così drammatici e violenti, però, sembrano dissonare con la personalità dell’uomo che, immediatamente, si dimostra essere particolarmente mite e accondiscendente.
Ad accorgersene è la guardia carceraria Paul Edgecombe che, giorno dopo giorno, si convince dell’errore giudiziario a i danni dell’uomo. John, infatti, dimostra ben presto di essere dotato di un dono particolare. Grazie ad una sorta di energia interiore, riesce ad assorbire il male da chi gli è accanto, per poi espellerlo sotto forma di uno sciame d’insetti.
Un talento che, ovviamente, mette a disposizione degli altri per alleviare le loro sofferenze. Nonostante questo, però, Paul non riesce a salvarlo. Lo stesso John si dimostra stanco di vivere all’interno di un mondo così intriso di violenza e sofferenza. E, in questo senso, sceglie di abbracciare il suo sacrificio come una sorta di espiazione universale del mondo. Un messaggio, dunque, particolarmente messianico che, però, prende spunto da un fatto di cronaca doloroso.
I fatti reali che hanno colpito l’immaginazione di Stephen King sono accaduti nel 1943 e riguardano George Stinney, uno tra i più giovani condannati a morte. A soli 14 anni, infatti, viene considerato colpevole dell’uccisione di due bambine bianche dopo un processo durato solamente due ore. Ovviamente il ragazzo è di colore, il che vuol dire una giustizia sommaria ed intrisa di razzismo e preconcetti.
Dopo settant’anni dalla sua esecuzione, un avvocato della Carolina del Sud ha riaperto il caso dimostrando, senza troppe difficoltà, la sua innocenza. È stato sufficiente prende in considerazione l’arma del delitto e l’esecuzione. Sembrerebbe, infatti, che ad uccidere le due bambine sia stata una trave di 19 kg. Un peso che un ragazzo dalla struttura fragile come quella di George non sarebbe mai riuscito a sollevare.
Da questo punto di vista, dunque, è chiaro come il caso giudiziario di Stinney rappresenti un esempio lampante di razzismo. La stessa problematica che, al di la dei diversi simbolismi, si trova alla base della narrazione de Il Miglio Verde. Perché a condannare John Coffey e la sua possibilità di essere d’aiuto agli altri, non è altro che il pregiudizio culturale di una società volta all’esaltazione della violenza e della protezione dei propri privilegi.
Frank Darabont e il tema carcerario
A rendere così intensa dal punto di vista emotivo la ricostruzione cinematografica de Il Miglio Verde è, senza ombra di dubbio, la presenza dietro la macchina da presa di Frank Darabont. Il regista, infatti, non è assolutamente nuovo alla tematica carceraria e, soprattutto, alla ricostruzione di questi microcosmi all’interno dei quali l’umanità trova, al tempo stesso, esasperazione e forza di reazione.
Solo cinque anni prima, infatti, Daraont porta sullo schermo Le ali della libertà, un’altra esperienza molto forte legata alla detenzione ed ispirata sempre dal lavoro di Stephen King. In questo caso il regista sembra aver trovato una sorta di formula vincente che ripropone anche ne Il miglio verde. Oltre alla costrizione detentiva e all’universo circoscritto che definisce, tratteggia con molta attenzione il rapporto tra due personaggi il cui scopo è offrire uno spettro particolare e completo della condizione.
Nel caso de Le ali della libertà, dunque, gran parte del potere evocativo della narrazione è affidato a Tim Robbins e Morgan Freeman che, insieme, contribuiscono a descrivere l’arco evolutivo della natura umana anche all’interno di una situazione estrema. Una struttura narrativa che viene riproposta anche per Il Miglio Verde. In questo caso gran parte della narrazione si basa sul rapporto sempre più stretto e personale tra il personaggio di Tom Hanks e quello di Michael Clarke Duncan. Una scelta studiata con molta attenzione per ottenere l’empatia del pubblico.
Alla fine degli anni novanta, infatti, Hanks rappresenta il simbolo dell’uomo mite, ragionevole e disposto a comprendere. D’altronde, grazie all’interpretazione di Forrest Gump, è riuscito a trasformarsi nell’emblema stesso del candore e della positività. Per questo motivo veste alla perfezione i panni della guardia carceraria Paul Edgecombe. Uomo dall’animo essenzialmente moderato e pacifico che, quando incontra John, inizia a vivere una sorta di evoluzione interiore destinata a non fermarsi nemmeno dopo la morte di quest’ultimo. Un cambiamento che albergava dentro di lui e che esplode di fronte ad uno struggente senso d’impotenza.
A fargli da controcanto sommesso ed efficace, poi, è l’interpretazione di Michael Clarke Duncan. L’attore, al suo primo grande ruolo, veste i panni di una vittima sacrificale senza, però, cadere nell’apoteosi della prevedibilità. In entrambi i casi, dunque, rappresentano tutto ciò che di positivo può esserci all’interno dell’umanità. Una ricchezza che, però, non sempre è destinata a vincere sull’ignoranza e la violenza.
La morte catartica
Fin dal suo inizio, tutto il film è permeato da un forte senso di morte che, ovviamente, è destinato ad essere sublimato nel drammatico finale. E non sarebbe potuto essere diversamente, visto che la vicenda è ambientata interamente all’interno del braccio della morte. Con miglio verde, infatti, s’intende proprio il colore delle pareti che caratterizzano il percorso verso la stanza della sedia elettrica.
Nonostante questo e lo struggente senso di attesa, però, la morte riesce ad avere un significato inevitabile, quasi catartico. Soprattutto quella di John. Il finale, infatti, prevede inevitabilmente il suo sacrificio. Una sorta d’immolazione necessaria per fare in modo che il personaggio di Paul comprenda fino in fondo il valore di ciò che lo circonda e porti con sé una consapevolezza più ampia sulla natura dell’uomo.
Per questo motivo, dunque, nonostante sia chiaro l’errore giudiziario ai danni dell’uomo e la sua conseguente funzione di capro espiatorio, il regista decide di condurre verso l’inevitabile attraverso un finale doloroso cui lo spettatore deve assistere impotente come tutte le guardie carcerarie. Ad amplificare ancora di più la forza di questa ingiustizia, poi, è la consapevolezza che ad essere sacrificato sia l’uomo migliore.
Quello al di sopra delle accuse ma, soprattutto, in grado di assorbire il male dagli altri. In questo modo e grazie alla lunga vita di cui godrà Paul per essere stato “toccato” dalla grazia di John, s’innesta un confronto serrato tra mortalità ed immortalità. Una condizione, la seconda, che non è interpretata come una benedizione ma una sorta di maledizione benefica. Una condizione che costringe l’uomo, nell’arco della sua lunga vecchiaia, ad attendere la fine esattamente come se fosse all’interno di un miglio verde.