Il cliente, Il rapporto Pelican e Il socio. Questi sono i romanzi firmati da John Grisham che, tra il 1993 e il 1994 hanno vissuto il battesimo del cinema. In effetti in quel periodo il mercato americano sembrava aver scoperto il potenziale del legal thriller, soprattutto come racconto romanzato. In modo particolare l’attenzione dei lettori e degli sceneggiatori era stata attirata dallo stile di Grisham che, forte della sua precedente esperienza come avvocato, sembra sapere perfettamente ciò che dice. E, fatto non meno importante, utilizza uno stile al tempo stesso chiaro e fortemente evocativo.
Tutte caratteristiche che inserisce nel suo primo romanzo Il momento di uccidere. Pubblicato nel 1989 e fortemente radicato nella società razzista degli stati del sud, questa storia conquista l’attenzione del regista Joel Schumacher che aveva già realizzato la trasposizione de Il Cliente. In questo caso, però, la materia trattata è così intima e fortemente radicata nella sub cultura del paese che richiede un atteggiamento meno razionale e distante. Una necessità che, grazie alla presenza costante dello stesso Grisham nel progetto, è stata pienamente rispettata e centrata.
In questo modo, dunque, Il momento di uccidere è stato trasformato nel 1996 in un film con una potenza emotiva incredibile senza, però, cadere mai nella retorica della narrazione del dolore e dei contrasti razziali. A fare la differenza, poi, non tanto un cast incredibile in cui brillano i nomi di Matthew McConaughey, Samuel L. Jackson, Kevin Spacey, Sandra Bullock e Donald Sutherland. Quanto, piuttosto, la costruzione nuda eppure intensa di un’arringa finale in grado di dare enfasi ed eco alle parole scelte da Grisham. Per questo motivo, dunque, e per comprendere meglio la loro potenza, proviamo ad analizzare insieme questi elementi nella nostra spiegazione del finale de Il tempo di uccidere.
John Grisham, l’uomo delle parole
Tutto prende vita proprio dalle parole di John Grisham che, ancora avvocato, decide di iniziare a tratteggiare questa storia. Una vicenda che rappresenterà il suo primo successo editoriale ma che, soprattutto, racconta un mondo molto famigliare. Per questo motivo, è necessario partire proprio da lui e dal substrato culturale che l’ha ispirato.
Con questo romanzo, infatti, Grisham non costruisce solamente lo schema del legal thriller che, dal 1989 in poi, continuerà ad applicare a tutti i suoi romanzi. In realtà fa molto di più. Scrive una storia profondamente legata al suo territorio e all’attitudine sociale che la caratterizza ormai da generazioni.
Così, prendendo come spunto narrativo una vicenda inventata solo in parte, compone il ritratto narrativo di un paese, o di una sua porzione, estremamente vivo e pericolosamente resistente. Oltre a questo, poi, definisce un varco essenziale tra il concetto di legge e quello ben più complesso di giustizia.
Soprattutto se considerato all’interno di una società dove il colore della pelle rappresenta una discriminante. In questo modo, dunque, definisce una storia profondamente personale all’interno del quale va a convogliare i molti dubbi vissuti come giovane avvocato dello stato del Mississippi e la conoscenza fin troppo capillare della realtà in cui è nato.
Non è difficile dedurre che il personaggio di Jake Tyler Brigance sia stato forgiato sulla sua personalità, sulle questioni affrontate a livello professionale e sui cambiamenti di prospettiva cui è arrivato nel corso del tempo. Per questo motivo, dunque, rispetto ai romanzi successivi, Il momento di uccidere vibra di un’anima prepotente. Ha una vitalità che arriva dal profondo, che accetta di mostrare il lato più ambiguo, sporco e sofferente della società.
Allo stesso tempo espone l’uomo alle sue miserie senza concedergli assoluzioni facili. In quest’arena tutti sono chiamati a confrontarsi con loro stessi ed i propri pregiudizi. E, alla fine, i vincenti sono coloro che riescono a mutare direzione riconoscendo l’esistenza di un’alternativa migliore che vada oltre le parole e i semplici buoni propositi.
Una storia attuale
Il film di Joel Schumacher è stato inserito all’interno del catalogo di Netflix. Perché, però, rivedere una pellicola considerata “datata” rispetto ad altre opzioni più recenti? Per molti il cast stellare potrebbe rappresentare una garanzia di qualità e, quindi, far dipendere da questo la loro scelta. Oltre a ciò, però, esiste una motivazione ben più importante che è fondamentale conoscere e che può essere racchiusa in due parole: razzismo e attualità. Nonostante la vicenda sia ambientata alla fine degli anni Ottanta in Mississippi, nulla lascia intendere che si tratti di un evento relegabile al passato. Incastonabile in una realtà storica che ci siamo lasciati alle spalle e, quindi, meno dolorosa da guardare.
Nulla di più errato. Nonostante siano trascorsi più di trent’anni, il razzismo è ancora al centro delle discussioni attuali per quanto riguarda la cultura americana e non solo. Per questo motivo, dunque, la vicenda di una bambina di colore profondamente e brutalmente violata da una società che non la considera degna di tutela, rispetto e umanità è destinata a toccare nel profondo nonostante la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una finzione cinematografica. Un dolore radicato nella consapevolezza che l’abuso sia stato solamente convogliato in modi e pratiche diverse.
Perché quel muro di cui parla Samuel L. Jackson nella vicenda esiste ancora. L’America stessa, parafrasando le parole del suo personaggio, rappresenta un divisorio sociale e culturale tra chi ha un diverso colore di pelle. Una separazione forgiata da decenni di sottintesi e diritti negati, resa meno visibile da una sorta di senso di colpa delle generazioni attuali. Comunque sia mai totalmente svanita. Per questo motivo, dunque, il personaggio di Carl Lee sceglie come avvocato il giovane Jake Brigance. Perché lui è uno dei privilegiati, uno dei “bianchi” il cui mondo è inattaccabile. E nessuno meglio di lui può sapere come conquistare la loro attenzione oltre gli schemi della legge stessa.
La giustizia oltre i codici
“Stuprata, picchiata, col corpo martoriato, fradicia della loro urina, fradicia del loro sperma e del proprio sangue, lasciata lì a morire. Voglio che la vediate…signore e signori, quella creatura…e ora immaginate che sia bianca.”
Queste sono le parole conclusive con cui Brigance prova a conquistare il cuore di una giuria strutturata in modo nettamente sfavorevole a Carl Lee. Frasi che, unite al racconto precedente, in cui cita con particolare precisione tutte le brutalità cui la piccola vittima è sottoposta dai suoi aggressori, vanno a rappresentare un terremoto culturale. Una sorta di schiaffo in pieno viso a se stesso e a quel piccolo insieme di umanità radunato nell’aula di giustizia che rappresenta la società al di fuori.
Spogliandosi delle conoscenze giuridiche, rinunciando alla sicurezza dei codici, si mette in discussione, provando a sé e allo stesso Carl che un’opzione diversa è possibile. Ma come? Dal punto di vista cinematografico la scelta di far chiudere gli occhi alla giuria è fondamentale. In quel modo, infatti, s’impone una sorta di estraneità dal contesto esterno sintonizzandosi con un livello interiore dove le parole ascoltate definiscono una realtà terribile.
Di fronte agli occhi dei giurati si vanno delineando ore di dolore, terrore, sofferenza e umiliazione impartite a una bambina solamente per il colore della sua pelle. Dopo questa immedesimazione, però, chiede di raggiungere ancora un altro particolare. Di fronte al corpo martoriato della piccola spinge tutti a immaginarla bianca. Ed è qui che avviene l’evoluzione, lo scatto personale ed emotivo. In questo modo pone se stesso e tutti gli altri, anche e soprattutto coloro che si sentono culturalmente al sicuro, di fronte alla rabbia, la frustrazione e l’annientamento.
Crea ciò che banalmente potrebbe essere considerata empatia e condivisione ma che, in questo caso, riesce a far cadere il muro tra i due mondi. Un risultato che ottiene mettendo la giuria e la sezione sociale che rappresentano di fronte ai loro stessi limiti culturali, all’invocazione della legge e alla santificazione dei codici solo perché creati da uomini simili a loro. In sostanza mette tutti a confronto di fronte a un interrogativo spesso considerato scontato ma altrettanto frequentemente dimenticato: e se tutto questo fosse accaduto a me? Una piccola domanda che, però, può generare risposte inaspettate, soprattutto in chi non ha mai sentito l’esigenza di porla.