Presentato in concorso alla 79° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e nelle sale italiane da giovedì 8 settembre, Il signore delle formiche è il nuovo film diretto da Gianni Amelio; un lungometraggio che lo stesso regista ha fortemente voluto realizzare per raccontare al più ampio pubblico di spettatori possibile una delle pagine più nere nella storia del sistema giudiziario italiano: quella dedicata al processo per plagio contro Aldo Braibanti, fine intellettuale e mirmecologo del suo tempo.
Un caso giudiziario, quello contro il filosofo e letterato omosessuale, che a metà degli anni ’60 fece scalpore ed ebbe un’eco senza precedenti prima nei salotti intellettuali dell’epoca, poi nell’opinione pubblica italiana ed internazionale. Grazie al film diretto da Gianni Amelio, questa pagina nerissima del sistema processuale nostrano rivive grazie allo straordinario ritratto che Luigi Lo Cascio crea del Braibanti. Ripercorriamo insieme le tappe fondamentali della storia vera che ha ispirato la pellicola italiana, a cavallo tra finzione cinematografica e documentazione del tempo.
Chi era Aldo Braibanti?
Intellettuale, poeta, politico e grande studioso della vita sociale degli insetti, Aldo Braibanti nasce nel 1922 a Fiorenzuola d’Arda in provincia di Piacenza da una famiglia illuminata e dai valori anti-fascisti. Studia prima a Parma e poi prosegue con la sua passione per la filosofia, la poesia e la letteratura del passato presso l’università di Firenze, dove coltiva le sue tendenze politiche anti-fasciste, diventa partigiano durante la Resistenza e si iscrive al Partito Comunista Italiano, per poi però uscirne nel 1947. Negli anni successivi del Dopoguerra, Aldo Braibanti torna nella terra natia e prende in affitto il Torrione Farnese di Castell’Arquato in provincia di Piacenza, che negli anni diventerà un laboratorio polivalente per l’intellettuale, una vera e propria factory ante litteram a cui confluiranno moltissimi giovani emiliani del tempo.
Il signore delle formiche prende le sue prime istanze narrative proprio nel periodo in cui il laboratorio del Torrione piacentino era maggiormente florido; fu difatti proprio in quegli anni che Braibanti incontra prima Ippolito poi Giovanni, due fratelli che si approcciano all’ambiente del laboratorio artistico per poi allontanarsene progressivamente. Soltanto Giovanni, il più giovane dei due, instaura un rapporto di grande fiducia e sincerità con Aldo, tanto che lo seguirà a Roma nel 1962 per coltivare la sua passione per la pittura. Una scelta che la famiglia del ragazzo, clericale e filo-fascista, non vede di buon occhio. Le conseguenze del rapporto tra Aldo Braibanti e Giovanni Sanfratello, sempre più moralmente ambiguo, saranno catastrofiche per entrambi.
Braibanti contro l’Italia bigotta
Il film di Gianni Amelio possiede una curiosa ma efficace struttura a due atti: la prima, maggiormente concentrata sul periodo piacentino al Torrione e sull’instaurarsi del rapporto intimo tra Aldo Braibanti ed Ettore Tagliaferri (i nomi dei due fratelli così come della sua famiglia vengono drasticamente modificati in fase di sceneggiatura) fa da introduzione a quello che diventerà l’evento interlocutorio maggiore del racconto: il trasferimento dei due a Roma nel 1962 e l’accusa di plagio da parte della famiglia Sanfratello nei confronti dell’intellettuale. Il padre e la madre di Giovanni (Ettore nel film di Amelio) accusano Braibanti di aver plagiato il figlio minore avendogli inculcato con la forza le sue idee comuniste e la sua visione del mondo; un’accusa che invece ben nascondeva la dura condanna della famiglia bigotta nei confronti della relazione omosessuale tra il figlio e Braibanti.
Il processo di plagio ai danni di Aldo Braibanti ha inizio a Roma nel 1964 per poi terminare quattro anni dopo; un lasso di tempo che il lungometraggio italiano racconta attraverso punti di vista inediti ed originali. Le varie fasi del procedimento giudiziario sono difatti narrate attraverso molteplici personaggi corollari, creati appositamente per il grande schermo ma nonostante tutto efficaci. A seguire difatti il processo c’è il giornalista romano Marcello (Elio Germano), coadiuvato nelle sue idee anti-fasciste dalla cugina Graziella (Sara Serraiocco); assieme i due sosterranno l’innocenza del Braibanti, prima sulla carta stampata, poi a picconate davanti il Palazzo di Giustizia della capitale. Davanti agli occhi dei molteplici protagonisti dell’evento processuale si stava facendo la Storia del sistema giudiziario nostrano con una delle sue pagine più nere ed incresciose.
Una pagina nera nella storia del nostro sistema giudiziario
Il caso Braibanti era per l’appunto nato dall’accusa di plagio mossa della famiglia di Giovanni, la prima di questo genere mai portata in tribunale fino ad allora. Un’accusa che nascondeva una visione bigotta e fortemente omofoba che caratterizzava parte della società e delle istituzioni italiane degli anni ’60, tanto che l’internamento di Giovanni in una clinica per malattie nervose per 15 lunghi mesi e poi la condanna a nove anni di reclusione del Braibanti fecero scandalo e scalpore. Il ragazzo scontò con terapie farmacologiche ed elettroshock la sua relazione intima con il filosofo emiliano, mentre quest’ultimo si vide accorciata la pena prima a quattro anni dopo il ricorso in appello, poi scontata a due anni perché partigiano della Resistenza.
Un risultato avvilente e devastante sia per l’accusato che per la società italiana tutta, e che il film di Gianni Amelio enfatizza grazie alla messa in scena di due sequenze madri di forte impatto emozionale che esulano però dalla veridicità storico-giudiziaria. La prima è quella che vede protagonista il giovane Ettore Tagliaferri salire sul banco degli imputati, visibilmente provato dalle brutali terapie della clinica in cui era stato internato, e professare con inedito candore la natura assolutamente consenziente del rapporto tra lui ed Aldo Braibanti; la scena dell’interrogatorio al ragazzo di 23 anni è tutta sorretta dalla straordinaria prova d’attore del giovanissimo Leonardo Maltese, il cui volto asciutto e martoriato viene esaltato sul grande schermo da una ripresa a macchina fissa sul volto dell’interprete, emozionante ed efficace.
Il film di Amelio tra condanna e libertà artistica
La seconda sequenza madre del film di Amelio, che del resto chiude il lungometraggio, ritrae invece l’intellettuale tornare nella cittadina natia per vedere per l’ultima volta l’anziana madre da poco deceduta, ma non prima di aver dato un ultimo abbraccio ad Ettore. Sulle sognanti note dell’Aida di Giuseppe Verdi, i due si congedano per sempre sotto il caloroso sole della campagna emiliana, scambiandosi versi di poesia come segno d’addio. Le vite di Aldo Braibanti e di Ettore avrebbero continuato il proprio doloroso corso senza mai incontrarsi più, con alle spalle un fardello che li avrebbe accompagnati per il resto della loro esistenza.
Così si chiude Il signore delle formiche, con un epilogo romantico e allo stesso tempo dolente che si allontana dalla veridicità storica (pare che il Braibanti e Giovanni non si siano più incontrati dopo la sentenza giudiziaria del 1968) per sublimare una durissima condanna a quelle istituzioni italiane che negli anni ’60 avevano portato in tribunale (per la prima ed unica volta nella storia giudiziaria nostrana) un’ambigua clausola del codice penale con l’intento di distruggere la reputazione di un cittadino apertamente omosessuale. Una macchia nerissima nelle pagine della nostra storia passata che Gianni Amelio ha saputo raccontare, non con poche incertezze e difetti, con senso del rispetto e della commozione nei confronti dei protagonisti coinvolti.
Il caso Braibanti cambia il sistema giudiziario italiano
La sentenza del 1968, che condannava l’illustre italiano a nove anni di reclusione, fece ovviamente scalpore nei salotti intellettuali dell’epoca; fu la prima ed unica volta che il sistema processuale del Bel Paese mise in atto una condanna per plagio, così com’era intesa nell’articolo 603 del codice penale del tempo: “Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni.”
Tale legge fu invocata negli anni successivi ai danni del sacerdote Emilio Grasso, accusato da alcuni genitori di aver plagiato i figli minorenni; un’accusa, quest’ultima, che però venne respinta dal giudice che interpellò precedentemente la Corte Costituzionale sulla possibilità che quell’articolo del codice penale fosse, in buona sostanza, incostituzionale. Emilio Grasso fu totalmente scagionato, mentre l’articolo 603 venne dichiarato incostituzionale a tutti gli effetti con una sentenza storica del 9 aprile del 1981.