Una figura minuta emerge dalla penombra del sottobosco e, aggrappata a una fune, avanza ansimando verso la macchina da presa. La scena d’apertura de Il silenzio degli innocenti ci introduce subito la sua protagonista, impegnata in una corsa solitaria fra gli alberi di una foresta della Virginia: un’esercitazione scandita dalla partitura musicale di Howard Shore, ad accentuare il senso di inquietudine di questo incipit. Nella sequenza successiva, quando viene convocata nell’ufficio del suo superiore Jack Crawford (Scott Glenn), conosciamo più da vicino Clarice Starling, una giovane recluta dell’accademia dell’FBI a Quantico, alla quale sarà affidato un compito estremamente delicato: recarsi presso il manicomio criminale di Baltimora nel tentativo di ottenere informazioni dal famigerato Hannibal Lecter, lo psichiatra-cannibale a cui presta il volto Anthony Hopkins. A interpretare il ruolo di Clarice, invece, è l’allora ventottenne Jodie Foster in quello che sarebbe rimasto il vertice assoluto della sua carriera.
Nata a Los Angeles e comparsa per la prima volta sugli schermi a soli tre anni in uno spot televisivo, Alicia Christian Foster, detta Jodie, intraprende la professione di attrice quando ha appena cinque anni, collezionando in breve una sterminata quantità di apparizioni in oltre una ventina di serie TV. Nel frattempo, nel 1972 debutta al cinema in una misconosciuta produzione della Disney (Due ragazzi e un leone) e nel 1976, alle soglie dell’adolescenza, si conferma come un’autentica enfant prodige di Hollywood: quell’anno recita infatti nel musical Piccoli gangsters di Alan Parker, nel dramma psicologico Quella strana ragazza che abita in fondo al viale e nella popolare commedia Tutto accadde un venerdì; contemporaneamente si aggiudica una candidatura all’Oscar per il suo ritratto della prostituta Iris Steensma in uno dei più celebrati capolavori della New Hollywood, Taxi Driver di Martin Scorsese.
Jodie Foster: da bambina-prodigio ai ruoli da Oscar
Nel decennio successivo, Jodie Foster alterna gli impegni sul set al percorso accademico, che culmina con una laurea in letteratura all’Università di Yale. Ma nonostante le collaborazioni con registi del calibro di Adrian Lyne, Tony Richardson e Claude Chabrol, la sua transizione verso ruoli più ‘adulti’ non sembra conservarle più di tanto l’attenzione del pubblico; fin quando, nel 1988, non viene scelta per la parte di una ragazza che subisce e denuncia una violenza sessuale nel film giudiziario Sotto accusa di Jonathan Kaplan, ricevendo l’Oscar come miglior attrice. È proprio in quel periodo che Jonathan Demme si accinge a dirigere Il silenzio degli innocenti, adattamento dell’omonimo romanzo di Thomas Harris; la Foster legge il libro, fra i massimi best-seller del 1988, e si adopera per farsi ingaggiare nei panni di Clarice Starling, che Demme aveva proposto all’inizio a Michelle Pfeiffer e in seguito a Meg Ryan.
I rifiuti delle due star e, viceversa, la determinazione di Jodie Foster faranno sì che sia quest’ultima a prendere parte al progetto, dando origine a una performance entrata nell’immaginario dell’ultimo trentennio di cinema. Il silenzio degli innocenti viene distribuito negli Stati Uniti dalla Orion il 14 febbraio 1991 (dieci mesi prima della sua bancarotta), registra oltre sessanta milioni di spettatori in tutto il mondo e, a un anno di distanza, si aggiudicherà i cinque Oscar principali, incluso il premio come miglior film. Per la Foster, ricompensata con il Golden Globe e con il suo secondo Oscar, Clarice Starling diventa il personaggio a cui la sua immagine d’attrice resterà maggiormente legata: un’aspirante agente dell’FBI che con incrollabile caparbietà, fiuto investigativo e una notevole dose di audacia si tuffa nelle indagini sulle tracce di Buffalo Bill (Ted Levine), un serial killer dedito a sequestrare, uccidere e scuoiare giovani donne in diverse aree del Nord America.
Fronteggiando l’abisso
Ma ben più del confronto con Buffalo Bill, a imprimersi nella memoria collettiva sono soprattutto i faccia a faccia fra Clarice Starling e Hannibal Lecter, divisi dal vetro di una cella. Già dal loro primo incontro, Jodie Foster ha occasione di far emergere la natura di Clarice: la studiata calma con cui si rivolge al dottor Lecter, rifiutandone le provocazioni; la fermezza nel respingere le note di nervosismo e d’angoscia che le trapelano dagli occhi. Se l’Hannibal di Anthony Hopkins è sempre pronto a ‘divorare’ la scena con la sua teatralità luciferina, la Clarice della Foster è un’interlocutrice che non si fa tenere sotto scacco. Quando Lecter la apostrofa come «un’energica campagnola ripulita con poco gusto», nella reazione di Clarice si mescolano il turbamento per i riferimenti al suo background familiare e il senso di dignità che la induce a replicare, con un sorriso forzato: «Perché non si guarda dentro e scrive quello che vede? O devo pensare che le fa paura?».
Attraverso le varie sfumature dello sguardo, dell’atteggiamento, del tono di voce, l’interpretazione di Jodie Foster ci descrive l’evoluzione del suo rapporto con Hannibal: un rapporto in cui Clarice assume una sicurezza via via più ampia, ma in parallelo è costretta a rendersi vulnerabile rivelando al dottor Lecter nuovi aspetti di se stessa, fino alla dolorosa rievocazione delle grida degli agnelli. Non a caso, in tali momenti, l’inquadratura si stringe spesso su primi e primissimi piani dei due attori, sottolineando sul piano visivo il grado di intimità raggiunto dai rispettivi personaggi. Ma in fondo, il thriller di Jonathan Demme pare suggerirci proprio questo: la forza di Clarice deriva appunto dal coraggio con cui accetta di “scrutare l’abisso”, pur consapevole dell’oscurità che ha davanti a sé, ma anche dentro di sé. Un’oscurità se possibile perfino più paurosa, ma in cui è necessario immergersi per sperare che, un giorno, gli agnelli avranno smesso di gridare.