Nel suo ultimo film, presentato in chiusura alla 80esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, J. A. Bayona porta sullo schermo la tragica storia vera dei sopravvissuti del volo 571 delle forze aeree uruguayane, precipitato il 13 ottobre 1972 nel cuore (ghiacciato) della Cordigliera delle Ande. Come abbiamo visto nella nostra recensione, si tratta di un’opera terribilmente intensa e caratterizzata da un realismo devastante, capace di indagare la reale natura dell’essere umano quando viene messa alla prova in un contesto nel quale la vita stessa non è contemplata. Cosa siamo disposti a fare pur di sopravvivere? Una domanda che governa l’intero lavoro del regista spagnolo e che spinge il proprio limite sempre più in là, in modo quasi impercettibile ma inesorabile, tracciando confini dai quali è impossibile tornare indietro.
Nel corso della narrazione, vediamo i sopravvissuti all’impatto organizzarsi per poter far fronte alle ferite, al gelo ma, soprattutto, alla mancanza di cibo. Dopo aver esaurito le poche scorte a disposizione sull’aereo, infatti, i ragazzi – di cui la maggior parte profondamente cattolici – si trovano di fronte a un dilemma morale: è giusto, in nome della sopravvivenza, cibarsi dei cadaveri di chi ha perso la vota? Una decisione disperata che non tutti si sentiranno di prendere e che, per questo, segnerà il primo spartiacque tra chi ce la farà e chi perderà la vita lungo il cammino. Ma non sarà solo la fame a mettere alla prova i sopravvissuti: la montagna, infatti, si rivelerà una cattiva ospite e più volte si abbatterà su di loro ribadendo la propria superiorità.
A due mesi dal disastro, sono in 16 ad essere ancora vivi. 16 esseri umani dispersi nel mezzo delle Ande consapevoli del fatto che i soccorsi non arriveranno mai o, almeno, mai in tempo. Se conoscete gli eventi narrati, saprete già quale sarà l’epilogo di questa tragica vicenda; ma vale comunque la pena vedere come il film di Baytona porta sullo schermo quegli ultimi giorni di disperata lotta per la vita nella nostra spiegazione del finale de La società della neve.
Come riescono a salvarsi i ragazzi?
Sapendo – attraverso la radio portatile che erano riusciti precedentemente a riparare – che i soccorsi non sarebbero mai arrivati in tempo e approfittando dell’inizio del disgelo, Roberto Canessa e Nando Parrado (qui interpretati rispettivamente da Matías Recalt e Agustín Pardella) decidono di offrirsi volontari per intraprendere una missione quasi suicida: avventurarsi tra le montagne, in direzione del Cile, per cercare aiuto. Dopo aver fatto scorta di viveri e di attrezzature recuperate dai rottami dell’aereo, il 12 dicembre 1972 – a 61 giorni dall’incidente – i ragazzi si mettono in marcia sapendo di avere davanti a loro almeno 10 giorni di cammino in mezzo alla neve e, soprattutto, 10 notti da trascorrere all’aperto, a 30 gradi sotto zero. Nonostante l’apparente irrealizzabilità dell’operazione, dopo oltre una settimana di bianco a perdita d’occhio, Canessa e Parrado raggiungono una valle, che li condurrà a un corso d’acqua e, infine, alla civiltà. I due si imbattono, infatti, in un uomo a cavallo che, compresa la situazione, li conduce alle autorità locali, dando così il via alle operazioni di salvataggio dei loro compagni.
Come finisce La società della neve?
Vediamo la notizia arrivare in patria, i nomi dei sopravvissuti rimbalzare per telefono, riaccendendo la speranza di alcuni e spegnendo per sempre quella di altri. E vediamo anche i 14 ragazzi rimasti nella carcassa dell’aereo apprendere per radio il successo dell’operazione di Canessa e Parrado, tentare alla bene e meglio di lavarsi i denti e sistemarsi i capelli per apparire presentabili al momento del salvataggio. Salvataggio che avviene il 22 dicembre, quando un elicottero raggiunge il luogo dell’incidente, recuperando i sopravvissuti e le poche cose che desiderano portare con loro, tra cui una valigia nella quale hanno raccolto gli effetti personali dei loro compagni caduti, catalogati per nome. Arrivati al campo base, vengono accolti dalle loro famiglie che così, a due mesi di distanza, possono riabbracciare quei figli che credevano morti.
L’accoglienza a casa è travolgente, tutti vogliono sapere cosa è successo tra quelle montagne e come sono riusciti a sopravvivere. Ma prima di raccontare al mondo la loro storia, i 16 ragazzi vengono portati in ospedale per tutti gli accertamenti del caso; qui, cominciano a fare i conti con ciò che hanno passato e con l’assenza degli amici persi lungo il cammino, mentre iniziano a togliersi di dosso – letteralmente e metaforicamente – tutto lo sporco di quei due mesi tra le montagne, portando alla luce i loro corpi scheletrici e bruciati dal sole. Un finale coinvolgente a ad alto tasso emotivo, soprattutto considerando il fatto che gli eventi narrati ripercorrono una storia reale, seppur con qualche piccola differenza.
Qual è il significato del film?
Il film di Bayona prende il suo titolo dal libro al quale si ispira, il romanzo dello scrittore uruguaiano Pablo Vierci, compagno di scuola della maggior parte dei superstiti del disastro aereo. Tanto l’opera letteraria quanto l’adattamento cinematografico non vuole essere un omaggio ai sopravvissuti ma a coloro che si sono sacrificati per permettere agli altri di poter andare avanti. Voce narrante del film è, infatti, Numa Turcatti, ovvero l’ultimo a perdere la vita prima della partenza di Canessa e Parrado, diventando in questo modo fonte di sussistenza per i propri compagni. Prima di morire, infatti, il giovane lascia un biglietto con scritto “Non c’è amore più grande di dare la vita per gli amici“, acconsentendo, di fatto, ai due esploratori e all’intero gruppo di cibarsi dei suoi resti mortali. Ed è proprio il concetto di gruppo – la società del titolo – il fulcro della narrazione, il modo in cui, restando uniti e mettendo insieme le proprie forze, i ragazzi sono riusciti a ricreare una sorta di normalità in uno dei posti più inospitali della Terra. In questo senso, l’importante non è chi è sopravvissuto ma come hanno trascorso quei giorni terribili ma anche colmi di speranza, dando vita a una società della neve in cui tutti sono arrivati fino alla fine: anche chi è caduto prima dell’arrivo dei soccorsi, infatti, ha continuato a vivere all’interno dei corpi (e del ricordo) di chi ce l’ha fatta.
Il film si conclude con la voce narrante di Turcatti, che ricorda al mondo il peso di essere un sopravvissuto, del senso di colpa che deve portare con sé chi ce l’ha fatta a fronte di altri che hanno perso la vita:
I giornali parlano degli eroi delle Ande, tornati dalla morte per incontrare i genitori, le fidanzate, i propri figli. Ma loro non si sentono eroi, perché sono morti come noi e solo loro sono tornati. E ricordandoci si chiedono perché non siamo tornati insieme, che senso ha? Dateglielo voi un senso, siete voi la risposta. Prendetevi cura gli uni degli altri e raccontate a tutti quello che abbiamo fatto tra le montagne.