Nel 2011, quando uscì nelle sale L’alba del pianeta delle scimmie, era lecito interrogarsi sull’effettivo potenziale dell’ennesima incarnazione di una franchise che non aveva mai saputo veramente replicare i lampi di genio del primo film, tra sequel sempre più pigri e un remake targato Tim Burton che era tecnicamente sopraffino ma un po’ vuoto a livello narrativo ed emotivo (con un finale che non incoraggiò il passaparola necessario a fini commerciali, uccidendo qualunque possibilità di un seguito per quella stramba reinvenzione di uno dei titoli di punta della 20th Century Fox). E sebbene sia stato effettivamente oscurato dai due capitoli successivi (con un quarto episodio in arrivo nel 2024), il film di Rupert Wyatt ha il merito di aver saputo reinventare in modo efficiente l’universo ideato dallo scrittore francese Pierre Boulle. Ma non era sicuro che sarebbe andata così, come proviamo a chiarire nella nostra spiegazione del finale. Ovviamente questo articolo contiene spoiler.
Date a Cesare quel che è di Cesare
A distanza di più di dieci anni, è particolarmente inquietante l’immagine di commiato del film, una mappa delle tratte aeree tramite le quali, a partire dal vicino di casa del protagonista umano Will, il virus che rende intelligenti le scimmie e uccide l’homo sapiens si spargerà nel resto del mondo (e ricordiamo che già nel 2011 c’era un che di cosmicamente ironico nel fatto che questo lungometraggio fosse uscito poche settimane prima del debutto di Contagion di Steven Soderbergh, thriller molto “virale”). Ma prima di arrivare a quel punto c’è il saluto finale tra Will e Cesare, con quest’ultimo che si erge a leader del nuovo movimento di liberazione per i primati usati come cavie e/o fonte di spettacolo in giro per il mondo.
Arrivate alla foresta dall’altro lato del Golden Gate Bridge, dove daranno vita alla loro nuova comunità, le scimmie vengono raggiunte da Will, il quale implora Cesare di tornare a casa. Lo scimpanzé, pur apprezzando il giovane in quanto uno dei pochi umani ad averlo sempre trattato bene, lo abbraccia e risponde “Cesare è a casa”, sottolineando la fine della loro amicizia. Will accetta la scelta di Cesare, e se ne va, uscendo di scena per il resto della saga, presumibilmente uno dei tanti morti per mano del virus tra gli eventi del primo e del secondo film.
Un esito diverso
Eppure, non doveva essere quello il finale del lungometraggio, nelle intenzioni della 20th Century Fox. La prima conclusione, girata a suo tempo, dava al personaggio interpretato da James Franco un addio più definitivo e brutale: Cesare è inseguito dai militari, e quando cercano di ucciderlo Will fa da scudo umano, morendo tra le braccia dello scimpanzé. Una conclusione drammatica, non c’è che dire, ma evidentemente anche lo studio si rese conto del potenziale errore di quel finale, facendolo rigirare poche settimane prima dell’uscita della pellicola.
Perché l’originale, per quanto tematicamente potente con l’umano che si sacrifica per salvare il primate, non era compatibile con l’impostazione generale dell’attuale incarnazione del franchise: se nel 1968, infatti, e anche nel 2001 la storia era dal punto di vista degli ominidi in un contesto distopico, nel 2011 c’era l’aggiornamento dei primi sequel della saga, con l’origine di quella distopia e il passaggio al punto di vista delle scimmie. In tal senso, non era particolarmente logico generare pathos con la morte del protagonista umano, togliendo così forza all’evoluzione di Cesare, il vero volto del trittico diretto da Wyatt e Matt Reeves.
È stato saggio, pertanto, rendere l’addio tra i due una cosa più sottotono, con Will che muore fuori campo tra un film e l’altro, mentre Cesare, pur rispettando gli umani e sapendo che non meritano tutti di morire, si isola sempre di più in nome di un’ideologia che talvolta ha un prezzo molto alto. Conquistando, in questo modo, le simpatie del pubblico e dando il via, come suggerisce il titolo originale del film, all’ascesa del pianeta delle scimmie.