Ci troviamo in un bagno lindo e pulito, anonimo come tanti altri. Rubinetti, lavabi, scarico e armadietto vengono esplorati in dettaglio dalla macchina da presa, attraverso numerosi stacchi di montaggio. Sulle rassicuranti note jazz di Bunny Berigan, entra un giovane uomo in maglietta e calzoncini. Si toglie la t-shirt, con una triplice ripetizione del gesto da più angolazioni, e comincia a radersi. Seguono dettagli molto ravvicinati dell’operazione. Nonostante non ci sia apparente bisogno di una rasatura, l’uomo, non contento, procede con una seconda passata: piccoli tagli si formano sul volto, finché il sangue comincia a gocciolare nel lavabo. Il personaggio prosegue imperterrito finché non arriva a provocare un copioso fiotto di sangue dalla gola, ripreso tra l’altro da tre angolazioni diverse. Infine, evidentemente soddisfatto, posa il rasoio con mano tremante.
Quello che abbiamo appena descritto non è l’episodio di qualche serie horror antologica attuale, si tratta invece di The Big Shave (La grande rasatura 1967), ovvero il terzo cortometraggio, sperimentale, realizzato da un giovane studente di cinema in cui non è difficile scorgervi già ossessioni, tematiche e modalità narrativo-visive tipiche del futuro autore di Taxi Driver e Toro scatenato: la sensazione di disagio dello spettatore di fronte a una situazione apparentemente normale, ma portata parossisticamente all’estremo; la violenza che scoppia inaspettata; la natura auto-distruttiva dell’essere umano connessa all’insistenza nel caricare e nell’esagerare qualunque azione che possa sembrare utile, trasformandola in una dannazione. Il tutto coniugato a una maestria visiva incredibile, con un controllo totale del mezzo visivo e l’utilizzo ironico della musica, in contrappunto a una situazione drammatica, dal sapore paradossale e dall’effetto straniante.
Poco importa se l’autore del corto volesse riferirsi in particolare alla politica estera statunitense, impegnata all’epoca nella disastrosa guerra del Vietnam. Tutto questo, e molto altro ancora, costituisce in realtà il cuore pulsante della filmografia del cineasta cui andiamo a rendere omaggio e di cui esploreremo le varie anime che ne compongono il complesso arazzo. Oggi si festeggia infatti il compleanno di uno dei più grandi maestri della settima arte, che ha fatto del cinema la sua ragione di vita: rivolgiamo dunque i nostri migliori auguri a Martin Scorsese, 80 anni al servizio del cinema.
L’uomo che amava il cinema
Quando si pensa a Scorsese, spesso, la prima cosa che viene in mente sono i film di gangster, da Mean Streets a Quei bravi ragazzi, da Casinò a The Irishman, passando per Gangs of New York (un gangster-movie atipico, in costume, che sa di Storia ed epica) e The Departed. Questi titoli sono in realtà una minima parte di una filmografia corposa che ha attraversato tanti generi e modalità narrative, attraverso i quali Scorsese ha esplorato le ossessioni a lui care, di cui si accennava poc’anzi. A cui aggiungiamo il tema della colpa, e conseguente redenzione, calato a volte in atmosfere mistiche, nonché intriso di quella cultura cattolica in cui il giovane Martin è cresciuto. A prescindere dai generi e dai contenuti trattati, ciò che ha sempre contraddistinto il regista nato nel Queens e cresciuto a Little Italy, è un amore sconfinato per la settima arte che si concretizza, non solo nei film, ma anche nei documentari che ha dedicato alla storia del cinema, nonché nell’attività di restauro e divulgazione che il cineasta porta avanti dagli anni Novanta. Tale amore lo spinse a iscriversi, diciottenne, al corso di cinematografia della New York University dove, come tanti suoi coetanei, si innamorò della Nouvelle vague francese (Godard in particolare), nonché di tanto cinema italiano che aveva raggiunto le vette più alte, tramite autori come Fellini, Antonioni, Rossellini, De Sica e Visconti.
Sensibilità europea nell’industria hollywoodiana
Scorsese fece parte di quella generazione di autori della New Hollywood, i cosiddetti movie-brats, usciti fuori tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, cinefili fino all’osso, affamati di storie e di gloria, che ha rivoluzionato l’industria dell’intrattenimento dall’interno, innestando le loro visioni in un sistema industriale rigido e attento soprattutto al business. Registi come Scorsese, Coppola, Spielberg, Lucas, De Palma, Friedkin, Milius, erano al tempo stesso iconoclasti nei confronti di Hollywood, ma amavano anche autori classici come John Ford, Howard Hawks e Alfred Hitchcock, registi che, prima di loro, erano riusciti comunque a imporre il loro stile, pur operando nel sistema degli Studios. E il giovane Martin, intriso di cinefilia europea, ma affascinato dalle grandi epopee americane dei film che vedeva da ragazzo, capì che una cosa non escludeva l’altra: la sensibilità europea poteva tranquillamente essere inoculata nei generi classici del cinema americano e nelle storie bigger than life che Scorsese aveva amato in tenera età.
Inadeguatezza e alienazione
Ce l’hai con me? il monologo (semi-improvvisato) di De Niro, a torso nudo, davanti allo specchio con la pistola in mano in Taxi Driver non solo è entrato nell’immaginario collettivo, ma ha sedimentato nel DNA inconscio di intere generazioni che, nella vita quotidiana, non vedevano l’ora di poter usare quelle provocatorie battute. La discesa di Travis Bickle, protagonista di quello che è riconosciuto come il capolavoro di Scorsese, nella solitudine e nell’alienazione era anche lo spaesamento di una intera generazione che era uscita ammaccata dal Vietnam, aveva perso fiducia nel Governo dopo il Watergate e non si riconosceva più in certi valori, ma non era neanche riuscita a costruirne altri. Se il disagio di Travis nasceva dal trauma del Vietnam, il suo essere smarrito di fronte al caos del mondo moderno è ancora terribilmente attuale. Il suo senso di inadeguatezza è lo stesso che viviamo ancora oggi: con la differenza che mentre Travis si rifugiava nel mondo dei film porno e delle armi, noi lo facciamo demandando le nostre identità ad avatar digitali, ma l’alienazione che ne sta all’origine è la medesima. Per questo un film come Taxi Driver non tramonterà mai.
Questa solitudine, unita alla sensazione di essere perennemente fuori posto nel mondo, accompagna moltissimi personaggi scorsesiani anche molto diversi tra loro: dallo yuppie perso nella notte di Soho di Fuori orario al Messia che si interroga sul senso della sua missione e sulla veridicità delle voci nella sua testa in L’ultima tentazione di Cristo, dal pugile auto-distruttivo Jake La Motta di Toro scatenato al patetico comico Rupert Pupkin di Re per una notte, passando anche per il milionario Howard Hughes di The Aviator che, nonostante le sue ricchezze, sarà sempre un parvenu nel mondo delle linee aeree internazionali e che, al culmine della sua paranoia, vivrà come un recluso gli ultimi decenni della sua vita.
Colpa e redenzione
Domenica in chiesa e lunedì all’inferno, il sottotitolo appioppato a Mean Streets dai distributori italiani, esprime perfettamente la parabola morale di molti personaggi scorsesiani, che vivono esistenze al limite della legalità, oppure ben oltre tale confine, ma che in qualche modo sentono di dover espiare le loro colpe, forse per aver introiettato fino al midollo quel meccanismo di colpa e pentimento che la religione, se vissuta in modo intenso, può portare all’estremo. Ci sono però vari gradi e sfumature in cui gli antieroi scorsesiani vivono tale conflitto interiore. Mentre il Charlie/Harvey Keitel di Mean Streets si strugge in chiesa per i suoi peccati, l’Henry Hill/Ray Liotta di Quei bravi ragazzi non si pone tanti problemi, contando sulla facile assoluzione garantita dalle liturgie religiose. L’Ace Rothstein/Robert De Niro di Casinò, che viene dalla cultura ebrea, vive invece una sorta di opprimente premonizione inconscia riguardo il destino di ascesa e caduta che lo aspetta, come se il fato stesso approntasse l’ideale punizione per i peccati commessi.
Il Dalai Lama di Kundun sconta su di sé il dolore di un’intera nazione, il Tibet, invaso dalla Cina che ne nega i fondamenti religiosi. Il già citato pugile Jake La Motta di Toro scatenato cerca espiazione nella consunzione violenta e sistematica dei rapporti con le persone che ama. L’allucinato paramedico Frank Pierce/Nicolas Cage di Al di là della vita crede di poter redimersi salvando la giovane tossica Mary/Patricia Arquette. Il missionario Ferreira/Liam Neeson di Silence sarà l’unico a rinnegare la propria fede nel Giappone del XVII secolo, e a dover convivere con questo enorme peso. Il Cristo/Willem Dafoe di L’ultima tentazione vive fino in fondo il peccato, provocando tra l’altro le ire della chiesa che si scagliò contro la pellicola, e si redime nell’unico modo che Dio gli offre, con Giuda visto non come traditore, bensì come strumento di attuazione di un destino divino che redimerà l’umanità intera.
I Gangster
La modalità con cui i Gangster vengono rappresentati al cinema ha subito uno scossone da Quei bravi ragazzi in poi. Se col Padrino Coppola ne fece una oscura epopea americana, rappresentativa della sete di potere, Scorsese applica lo sguardo di un entomologo ai suoi piccoli e medi criminali che si arrabattano per vivere quanto più possibile una vita agiata, che all’uomo comune non è concessa. Ma le regole di condotta di questi uomini sono talmente rigide che basta un niente, una parola di troppo, per essere falciati via. Non c’è mai giudizio nel modo in cui Scorsese rappresenta questi balordi, tutt’al più comprensione dei meccanismi in cui sono invischiati fin da piccoli.
Con Casinò i toni diventano più dark e lo sguardo più spietato: l’ordalia di Asso Rothstein attraverso la Las Vegas degli anni ’60-’70 è intrisa di ineluttabilità e cupidigia, emblematica di un’intera nazione. The Departed è forse il meno ispirato tra i gangster-movie di Scorsese, sebbene si tratti dell’unica pellicola premiata con un Oscar tardivo. The Irishman, del 2019, è invece l’opera che ricapitola in un certo senso un’intera parabola cinematografica e ne suggella la dolente fine, nonostante siano in arrivo nuovi film dell’ottuagenario cineasta.
L’anima rock
L’altro grande amore di Scorsese, oltre la settima arte, è il rock, che ha accompagnato la sua adolescenza e che è proseguito per una vita intera. In particolare il rapporto con i Rolling Stones è sempre stato molto intenso, a partire dall’iconica entrata in scena di Johnny Boy/Robert De Niro in Mean Streets sulle note di Jumping Jack Flash, mentre la macchina da presa gli si avvicina con un movimento di dolly, a sottolineare la nefasta influenza che il personaggio avrà sulla vita di Charlie. Alcuni brani della band di Mick Jagger torneranno insistentemente nella filmografia di Scorsese, come la significativa Gimme Shelter (dammi il veleno) che apre The Departed e che è presente anche in Casinò. Il culmine del rapporto con gli Stones è avvenuto nel 2008, con l’uscita del film-concerto Shine a Light, in cui il nostro si è divertito a riprendere Jagger e compagni con tutto il suo armamentario linguistico-visivo dispiegato ai massimi livelli. Già nel 1979 però Scorsese aveva firmato un altro leggendario film-concerto, quell’Ultimo Valzer, con cui testimoniò l’esibizione finale dei The Band di Robbie Robertson. Non è un caso infine che tale concerto si concludesse con la performance di Bob Dylan, che ritroveremo come tema di due bellissimi documentari del XXI secolo e cioè No direction Home: Bob Dylan (2005) e Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story (2019). Se a questi aggiungiamo Dal Mali al Mississippi (2002) e George Harrison: Living in a Material World (2011), possiamo farci un’idea del contributo di Scorsese al consolidamento del rock e del blues come pilastri della storia culturale, antropologica e sociale americana.
Non solo di rock si nutre Scorsese, ma anche di opera (la Cavalleria Rusticana sui titoli di testa di Toro scatenato), nonché di Jazz e Swing, generi che pure attraversano sotterraneamente la sua filmografia. Le colonne sonore delle sue pellicole diventano spesso magnifiche playlist, piacevoli da ascoltare autonomamente.
Ciò che contraddistingue inoltre l’autore di New York New York, è l’utilizzo di tali musiche in chiave antifrastica. In altre parole i brani non accompagnano mai le scene in modo didascalico ma, come in The big Shave, costituiscono un contrappunto ironico, sferzante e disorientante rispetto a scene paradossali e grottesche, in cui l’irrazionalità dell’animo umano esplode spesso incontrollata come reazione al caos della modernità. Se state pensando al cinema di Tarantino come discendente di questa cifra narrativa non siete affatto in errore.
L’anima divulgativa
La propensione al racconto del Reale si concretizzò già nel monumentale lavoro di riprese e montaggio per il film sul concerto di Woodstock del 1969, a cui il giovane Marty prese parte. Ma Scorsese ha esplorato anche le sue radici con il celebre ritratto della sua famiglia contenuto in Italoamericani, del 1974, con cui ha portato le macchine da presa a casa dei genitori. Ma soprattutto i due documentari sul cinema, Un secolo di cinema – Viaggio nel cinema americano (1995) e Il mio viaggio in Italia (1999) sono la massima espressione dello Scorsese divulgatore per passione.
Il modo in cui illustra il meglio del cinema che ha sempre amato, è trascinante e si trova in una felice intersezione tra la critica e la passione intrisa di storia personale, dove il proprio percorso all’interno della fruizione dei film diventa universale ed esemplare. Nell’accostarsi al cinema italiano infine Scorsese diventa reverente, ma guardate soltanto il modo in cui commenta la performance di Paolo Stoppa in L’oro di Napoli, dove l’attore romano interpreta un disperato neo-vedovo che, prima di cercare di buttarsi dal balcone, controlla che ci sia qualcuno a fermarlo. Il parossismo della sequenza, commentata in modo così partecipato da Scorsese, richiama in effetti certe situazioni messe spesso in scena dallo stesso cineasta italo-americano.
Ancora al servizio del cinema
Se il cinema per ragazzi sembra lontano dalle corde del regista di Cape Fear, non dimentichiamo quel gioiellino di Hugo Cabret, con cui nel 2011 Scorsese rese omaggio al padre del cinema fantastico, George Méliès. La vicenda del piccolo orfano che vive nella stazione di Parigi degli anni Trenta si incrocia infatti con quella dell’autore de Il viaggio nella Luna (1902), caduto ormai in miseria dopo i fasti di inizio secolo. Cabret è un sentito omaggio alla settima arte come fenomeno da baraccone, nel senso affabulatorio e illusionistico del termine. È dunque al cinema delle origini che torna Scorsese, ma lo fa con i mezzi moderni del 3D e della Computer grafica, al servizio di una storia dai toni inaspettatamente fiabeschi, inusuali, nel quale l’autore di Mean Streets si è divertito tra l’altro a contaminare la narrazione con veri e propri reenactment dei cortometraggi fantastici di Méliès. Ma il film è una miniera di citazioni e omaggi a tanti maestri del cinema e della letteratura.
Il viaggio di Scorsese non è certamente finito: arrivato oggi agli 80 anni, il nostro non si è affatto fermato e, mentre siamo in attesa del suo prossimo Killer of the Flower moon, con Di Caprio e De Niro, altri progetti, come The Wager, già si affacciano all’orizzonte. Ciò che sappiamo resterà sempre costante in Scorsese è la ricerca di nuove sfide nonché il suo sguardo, mai riconciliato, nei confronti del caos di cui è intriso il mondo, infine la capacità di sorprendere e il suo perenne lavoro al servizio del cinema.