Si potrebbe dire che Nope, terza prova cinematografica di Jordan Peele, nelle sale in questi giorni, sia un film di genere fantascientifico dalle cadenze western, oppure ancora un film autoriale sotto le mentite spoglie di un horror pregno del fascino dei B-movie. Sicuramente Nope è un oggetto cinematografico difficilmente identificabile (tanto per restare in tema UFO), che mentre utilizza efficacemente i meccanismi di quei generi, giocando abilmente con le aspettative dello spettatore, d’altro canto diventa film teorico, di riflessione sul cinema, sulla sua storia e sulle modalità dello sguardo dello spettatore. Per chiarire tutto questo è necessaria una ricapitolazione della trama aggiungendo che, da questo momento in poi, saranno presenti spoiler, per cui consigliamo la lettura soltanto a chi ha visto il film.
Cavalli e dischi volanti
OJ (Daniel Kalluuya) ed Emerald Haywood (Keke Parker), fratello e sorella, gestiscono con difficoltà, dopo la morte del padre, un ranch in cui allevano cavalli per produzioni cinematografiche. Nell’isolata fattoria cominciano a verificarsi strani avvenimenti, cali di tensione, strani rumori e soprattutto avvistamenti di quello che sembra a tutti gli effetti un disco volante. OJ ed Em decidono sfruttare l’occasione e riprendere l’oggetto con telecamere di sorveglianza, per realizzare un video Oprah, ovvero una clip degna di essere trasmessa all’interno del talk-show della celebre conduttrice Oprah Winfrey, guadagnando così fama e denaro. Nell’impresa viene coinvolto un tecnico esperto di telecamere a circuito chiuso e, in seconda battuta, un famoso direttore della fotografia di Hollywood, Antlers Host (Michael Wincott), artefice di una macchina da presa a manovella, indispensabile per riprendere l’oggetto che, tra le altre cose, provoca impulsi EMP che rendono inutilizzabili le normali apparecchiature elettroniche di ripresa.
Scopriranno a loro spese che non si tratta di un “semplice” velivolo spaziale, bensì di un vero e proprio essere senziente, predatorio e carnivoro, la cui forma ricorda quella di un occhio con una pupilla nel centro, che aggredisce solo se viene guardato. Questo almeno quando è “chiuso”. Nel finale del film invece l’organismo si apre, come in una sorta di trasformazione che ricorda gli anime giapponesi, rivelando l’interno, apparentemente costituito da tendaggi, e una sorta di bocca, se così si può dire, quadrata e nera.
Il cinema delle origini
Soffermiamoci adesso su quelli che sono i riferimenti culturali dichiarati del film, in particolare riguardo il cinema delle origini, enunciati dalla stessa Emerald durante una presentazione dell’attività sua e del fratello, di fronte a una troupe cinematografica. La donna parla degli esperimenti del XIX secolo di Eadweard Muybridge, fotografo che, tramite la tecnica della cronofotografia, riprese la corsa di un cavallo con lo scopo di studiarne il movimento e sfatare l’idea, comunemente accettata all’epoca, che gli zoccoli del cavallo si alzassero contemporaneamente da terra nel momento di massima espansione delle gambe. Emerald ci tiene a sottolineare che il fantino del cavallo ripreso da Muybridge era, non solo nero, ma in realtà suo antenato, evidenziando dunque una connessione diretta della sua famiglia con le origini del cinema.
In questo rientra sia la fascinazione di Peele nei confronti del cinema degli albori, sia una rivendicazione politica che vuole rimarcare la presenza fondamentale, mai riconosciuta, delle persone di colore nella nascita della settima arte. Da sottolineare anche la presenza del direttore della fotografia, leggenda di Hollywood, armato di macchina da presa a manovella, unica in grado di riprendere il mostro, come esplicito omaggio al cinema che fu e dichiarazione d’amore nei confronti di una tecnologia vintage o, se vogliamo, più umana.
Il mostro come macchina di proiezione
Se pensiamo dunque all’importanza tematica del cinema delle origini nell’economia narrativa del film, viene quasi naturale, osservando le fattezze del mostro, considerare la bocca quadrata e oscura come il tipico schermo a 4:3 che ha caratterizzato la settima arte ai suoi albori, e i tendaggi come un richiamo ai sipari che una volta occultavano e, una volta aperti, incorniciavano lo schermo. Cos’è allora il mostro alieno che divora con lo sguardo, se non un’enorme macchina di proiezione cinematografica che, guarda caso, ci viene mostrata dall’interno, già nei titoli di testa, quando lo sguardo di Peele si trova all’interno del mostro, ovvero nella sala di proiezione, a guardare il famoso filmato di Muybridge?
Se dunque il film di Peele è esso stesso una metafora del meccanismo dello sguardo, inteso come pulsione a divorare, con riferimento all’ossessione della nostra società per la riproducibilità delle immagini, il Mostro che perseguita i protagonisti è la concretizzazione perfetta di tale meccanismo. Una sorta di sala di proiezione cinematografica mobile che divora gli spettatori e li risputa a pezzi, o almeno ne rigetta oggetti personali e sangue. Un meccanismo di rimasticazione delle persone che è anche un’efficace allegoria della società dello spettacolo che usa le persone per rubarne le storie, le energie e le anime, per poi restituirle in una forma narrativamente digeribile. Gli stessi fratelli Haywood sono un semplice ingranaggio delle grosse produzioni hollywoodiane, pronte a rigettarli nel momento in cui i cavalli non si adeguano subito alle sollecitazioni eccessive di un set cinematografico. La loro rivendicazione riguardo il colore della pelle del fantino delle riprese di Muybridge è ininfluente per gli ispettori di produzione, i tecnici e l’attrice che assistono alla presentazione, ma viene percepita semplicemente come una nota di colore, se ci si passa il gioco di parole.
Un film teorico
Siamo sempre prudenti a usare certe espressioni per definire un film, ma mai come in questo caso pensiamo che Peele abbia confezionato il film teorico per eccellenza, con precise intenzionalità. Si abusa spesso del termine “meta-cinematografico” ma con Nope abbiamo l’impressione che Peele si sia davvero sbizzarrito, e certamente divertito, a costruire un meccanismo filmico che, in ogni sua parte e dettaglio, rispecchia l’idea alla base di spietata riflessione sul mondo dello spettacolo e sulle implicazioni morali dello sguardo voyeuristico che sottende, plasma e influenza la nostra società.