È singolare che il significato di March, il cognome di Jo, Meg, Amy e Beth alluda al mese della primavera, quello in cui la natura si risveglia e tutti gli esseri umani si sentono felici di essere al mondo. Singolare, ma non assurdo perché le protagoniste di Piccole donne, il romanzo di Louisa May Alcott sono un concentrato di energia, intelligenza e bellezza. Primo di un ciclo di tre libri pubblicati a partire dal 1868, adattato numerose per il cinema e la televisione (c’è anche una versione animata giapponese andata in onda sulle reti Mediaset negli anni ’80), Piccole donne è stato portato sul grande schermo nel 2019 da Greta Gerwig che ne ha dato una rilettura per certi versi molto innovativa e femminista. Una rielaborazione, la sua, che può anche non essere riuscita completamente, ma che di sicuro non lascia indifferenti. Ecco allora la spiegazione del finale di Piccole donne 2019.
Le sorelle March
Il film non comincia dal vociare festoso delle sorelle March nella loro casa di Concord, ma dal colloquio tra Jo, dietro la quale si nasconde Louisa May Alcott, e l’editore Dashwood. A lui la ragazza affida il sogno di diventare un’autrice ricordata nei secoli a venire. Facile? Neanche un po’ e per un motivo abbastanza chiaro: Jo, Josephine, è una donna e le donne hanno una libertà limitata nella vita come nell’arte. La lunga contrattazione sulla possibilità di pubblicare i suoi racconti finisce abbastanza bene per lei. La gioia dura poco. Prima il durissimo confronto con il professor Bhaer, che vive nello stesso palazzo in cui fa da istitutrice ad alcuni bambini e che vorrebbe da lei un tipo di produzione letteraria diversa, poi la notizia dell’aggravamento dell’amata sorella Beth gettano nello sconforto Jo, che torna a casa.
Da questo momento tutti i momenti principali della storia classica si avvicendano davanti a noi. L’arrivo di Laurie nella vita delle sorelle March. La proposta di matrimonio del ragazzo nei confronti di Jo, che poi lo rifiuterà nel giorno del matrimonio di Meg. La malattia e poi la morte di Beth, la guerra contro gli schiavisti, l’amore tra Amy e Laurie. Proprio quest’ultimo tassello, che scatena in Jo un inspiegabile dolore, sarà lo stimolo per scrivere un romanzo, in cui racconterà tutta la sua vita fino a quel momento. Lo presenta al signor Dashwood che non gli dà il giusto peso. Almeno fino a quando le sue figlie non entrano in possesso del manoscritto di Jo, innamorandosene perdutamente.
La spiegazione del finale di Piccole donne: il sogno si avvera
Jo è faccia a faccia con il suo editore, il signor Dashwood. Le figlie dell’uomo sono incantate dal romanzo Piccole donne e vogliono saperne di più. Arriva quindi la fatale domanda: “Chi sposerà la protagonista?“. Jo risponde che la sua eroina non sposerà nessuno. Incalzata da Dashwood, che invece chiede un lieto fine obbligatorio, la scrittrice sceglie di scrivere un happy ending che le permetterà la pubblicazione del libro. Ora siamo noi a vedere questo epilogo, con il famoso bacio sotto la pioggia tra Jo e Bhaer.
Quello è stato solo un piccolo prezzo da pagare per vedere realizzato un sogno. Jo oltretutto contratta i diritti a testa alta e riesce a strappare una buona cifra. Così, mentre il romanzo inizia il suo percorso fino alla stampa, Jo si gode una grande realizzazione. Ha ricevuto in eredità la villa di zia March che ora è diventata una scuola in cui insegna assieme alle sue sorelle, ai genitori e a Bhaer. Tra giochi e risate, Jo, Meg ed Amy festeggiano il compleanno della loro mamma, la figura femminile chiave della loro intera esistenza. Mentre un libro dalla copertina rosso fuoco è pronto a vedere la luce.
Tra verità e fiaba
Il Piccole donne della Gerwig è un film in cui è ben chiara la sovrapposizione tra il personaggio di Jo e la sua creatrice Louisa May Alcott. Josephine March è senza dubbio la Alcott. Una donna tanto forte da contrattare in prima persona con gli editori e fiera a tal punto da accettare di sacrificare parte della sua libertà artistica (alla fine fa sposare la sua protagonista) pur di vedere realizzato il suo sogno. Ammettiamo di non aver apprezzato l’automatismo che ha portato a mostrare questa decisione, non tanto perché metta in dubbio il mito delle piccole donne a cui da sempre siamo abituate, quanto per la scelta di aver innestato questo elemento di realismo (e ora vedremo perché) in una favola. Insomma, fossimo state in un biopic sulla Alcott questa sequenza sarebbe stata imprescindibile, in questo caso la mano è stata forzata un po’. Giusto un po’, però, perché effettivamente le cose sono andate come avvenuto nel finale di Piccole donne 2019.
Louisa May Alcott, la rivoluzionaria
Prima di arrivare al succo della questione, solo qualche parola sulla nostra eroina. Louisa May Alcott fu una delle autrici più celebri della sua era. Se Emily Dickinson è stata la voce lirica della letteratura romantica americana, la Alcott incarnò il talento narrativo. La sua casa era frequentata da due grandi autori della storia, Ralph Waldon Emerson e Henry David Thoreau (quello citato ne L’attimo fuggente), trascendentalisti come il padre Amon Bronson. La famiglia Alcott, inoltre, era progressista, abolizionista e femminista. Tentarono addirittura di creare una comunità utopica non lontano da Harvard, poi fallita.
Questo è abbastanza per spiegare il carattere rivoluzionario di questa scrittrice che non si sposò mai, anzi pensava addirittura di essere un maschio, imprigionato per sbaglio nel corpo di una donna (e lo dice anche Saoirse Ronan in Piccole donne 2019). In effetti la Alcott fu obbligata a far sposare Jo su pressione di lettrici e lettori. Decise però di non farla accasare con Laurie, come il pubblico avrebbe voluto, ma con un professore tedesco molto più anziano di lei. Una scelta che in effetti poteva tranquillamente essere considerata un buon compromesso tra il desiderio di libertà di Jo (e di Louisa) e la sua innata capacità di “scandalizzare” i benpensanti.
La maledizione di Bhaer
Di tutti i personaggi di Piccole donne, a cui pensiamo sempre storcendo un po’ il naso, c’è sicuramente quello del professor Bhaer, interesse amoroso di Jo, e figura maschile di grande sensibilità e intelligenza. La sua nazionalità è tedesca, concessione nemmeno troppo velata al romanticismo e allo Sturm und Drang che lo pervade. Eppure, in nessun adattamento è stato mai interpretato da un attore tedesco. Nel film del 1933 diretto da George Cukor, la parte è andata all’ungherese Paul Lukas.
In quello del 1949, firmato da Melvin LeRoy, il ruolo è stato del nostro Rossano Brazzi. E per un latin lover riconosciuto come lui, non deve essere stato facile vestire i panni di un morigerato insegnante. La storia si è ripetuta anche nel 1994, nel film diretto dall’australiana Gillian Anderson, dove Bhaer è stato interpretato dall’irlandese Gabriel Byrne. Infine, dulcis in fundo, la Gerwig ha affidato Bhaer al francese Louis Garrel, sinceramente fuori parte. Che la prossima trasposizione ci porti finalmente un attore tedesco?