Il film: A Different Man, 2024. Regia: Aaron Schimberg. Cast: Sebastian Stan, Renate Reinsve, Adam Pearson. Genere: drammatico, thriller. Durata: 112 minuti. Dove l’abbiamo visto: alla Berlinale, in lingua originale.
Trama: Un attore entra in crisi d’identità quando una sua conoscente mette in scena un testo teatrale basato sulla sua vita.
È giusto che un attore, in nome dell’arte, finga di possedere certe caratteristiche fisiche, o si spacci per un’etnia che non è la sua? È una domanda che si è fatta sempre più presente dietro le quinte nel cinema americano (con tanto di versione umoristica estrema in un progetto come Tropic Thunder), e che è oggetto di un’elaborazione molto particolare in un film che ha esordito al Sundance ed è poi arrivato subito dopo alla Berlinale, in lizza per l’Orso d’Oro. Un film che affronta l’argomento con un certo piglio satirico, spostandosi però dal prevedibile bersaglio hollywoodiano nell’universo più piccolo del teatro indipendente, con la storia che è al centro del lungometraggio di cui parliamo nella nostra recensione di A Different Man.
Guardare in faccia la realtà
Edward vive a New York e fa l’attore, ma per lui le possibilità professionali sono limitate: affetto da neurofibromatosi, con enormi tumori che gli coprono il volto, ha un curriculum essenzialmente circoscritto a un video aziendale dove si insegna ai dipendenti a trattare in modo umano i colleghi affetti da deformità fisiche. Un giorno fa la conoscenza della nuova vicina Ingrid, arrivata dalla Norvegia e autrice teatrale, che gli promette un ruolo nel suo prossimo testo. Solo che nel frattempo Edward, sottoponendosi a un nuovo trattamento sperimentale, una mattina si sveglia con una faccia completamente nuova, senza alcun segno della malattia. Sfruttando la confusione della prima persona che entra nel suo appartamento, egli simula il proprio decesso e si reinventa come Guy (“tizio” in inglese), un peso massimo dell’immobiliare. Ingrid, dal canto suo, ha scritto una pièce intitolata proprio Edward, e a questo punto Guy non è più la scelta ideale per il ruolo principale, nonostante la maschera che riproduce le sue vecchie fattezze. E poi a un certo punto arriva Oswald, anch’egli affetto da neurofibromatosi ma dotato del carisma che Edward non aveva…
Un altro tipo di persona
Edward/Guy è Sebastian Stan, alle prese con il suo ruolo cinematografico più maturo e vulnerabile, una performance stratificata (in tutti i sensi) che mette a nudo nevrosi e insicurezze del mestiere dell’attore interrogandosi sulla natura stessa della performance e sull’uso della maschera/trucco come estensione dell’identità recitativa. A fargli da contrappunto è l’inglese Adam Pearson, davvero affetto da neurofibromatosi nella vita e da anni letteralmente volto della BBC per quanto riguarda i programmi che analizzano la disabilità e criticano i fenomeni di bullismo associati alla stessa. Tra i due si situa la norvegese Renate Reinsve, il cui spirito europeo è evidente nella caratterizzazione di Ingrid.
Tutto il mondo è palcoscenico?
La crisi d’identità è un argomento affascinante nelle mani dello sceneggiatore e regista Aaron Schimberg, che si muove tra i generi – in parte dramma, in parte thriller, in parte commedia nerissima – per esplorare le sfumature più grottesche delle domande, legittime ma talvolta strumentalizzate in modo eccessivo, legate al rapporto tra attore e personaggio. Un’analisi che, paradossalmente, diventa meno efficace man mano che aumenta l’energia umoristica dell’assurdo, come se lo stesso cineasta non avesse la risposta che cerca e puntasse sull’eccesso per compensare. Ma anche in quell’eccesso vi sono tracce di un interessante trattato sulla recitazione, con il cinema che si fa teatro e viceversa per meditare sulle qualità di chi sale sul palco o si mette davanti a una macchina da presa per lavoro e soprattutto per passione.
La recensione in breve
La narrazione si perde un po' nei meandri della propria ambizione, ma il trio d'attori rimane eccelso dall'inizio alla fine.
- Voto CinemaSerieTV