Il film: A passo d’uomo, 2023. Regia: Denis Imbert. Cast: Jean Dujardin, Joséphine Japy, Izïa Higelin, Anny Duperey, Jonathan Zaccaï. Genere: Drammatico. Durata: 95 minuti. Dove l’abbiamo visto: Anteprima stampa.
Trama: Viaggiare, scrivere ed avere successo. Questi sono gli aspetti fondamentali nella vita di Pierre. Elementi che vanno a definire ancora di più il suo fascino e che lo rendono tanto sicuro di sé da essere strafottente nei confronti della vita stessa. Con una sorta di movimento karmico, dunque, il destino decide di punirlo. O, almeno, di fermarlo. Durante una delle sue serate fatte di eccessi, infatti, cade da una finestra. Un volo di otto metri che lo porta al limite della sopravvivenza, passando anche un periodo in coma. Al suo risveglio, però, scopre che niente sarà più uguale a prima. Tanto meno il suo volto e il suo corpo. I due, infatti, sembrano essere diventati dei nemici. Invece di combatterli, però, Pierre decide di imparare a convivere con loro, facendoli diventare i compagni essenziali di un lungo viaggio attraverso la Francia. Una sfida con e per se stesso.
La natura, che sia essa lussureggiante o aspra, rappresenta sempre un elemento spesso essenziale con cui è necessario confrontarsi. Dal dialogo con lei ne derivano diversi effetti. Da una parte è possibile ottenere un risultato pacificante, dall’altro una sfida con se stessi per stabilire quanto sia possibile andare oltre i propri limiti. Ed è proprio il secondo caso che muove i passi di Pierre, protagonista del film A passo d’uomo, tratto dal romanzo omonimo e autobiografico di Sylvain Tesson.
La pellicola, interpretata dal premio Oscar Jean Dujardin e presentata alla settantunesima edizione del Trento Film Festival, si prepara a seguire il sentiero tracciato da Le otto montagne, in cui la natura e le sfide che impone hanno definito gran parte del racconto. Questo ha ottenuto il Premio della Giuria a Cannes ed è riuscito a collezionare ben 14 nomination ai David di Donatello. Per non parlare del successo economico con gli oltre oltre 6 milioni di euro guadagnati al box office italiano. Vediamo attraverso la recensione di A passo d’uomo se il film diretto da Denis Imbert è destinato ad ottenere altrettanto.
Trama: Un passo alla volta
Pierre è un famoso esploratore, viaggiatore e scrittore. La sua vitalità, però, spesso sfocia in un atteggiamento irresponsabile, fin troppo guascone e mosso da una costante sfida verso il destino, convinto di vincere sempre e comunque. Ua filosofia di vita, però, che lo porta ad essere vittima di un incidente tanto sciocco quanto grave. Cadendo da una finestra durante una delle sue notti brave fatte di alcol ed eccessi, Pierre si procura fratture e gravi lesioni che lasciano segni evidenti sul suo corpo. Tra cui delle vistose e poco attraenti cicatrici che assumono il ruolo di un eterno ricordo sul volto. A questo, poi, si aggiungono anche delle crisi epilettiche, effetto collaterale della caduta. O, meglio, del suo impatto.
Un insieme di limiti, come quello motorio, dunque, che potrebbero cambiare completamente la vita dell’uomo. Se non fosse che, proprio dall’incidente, Pierre trova la forza e l’impulso giusto per reagire. Una forza d’animo che si concretizza in movimento. Lento, costante, cadenzato. Lo stesso che lo porta ad affrontare una sfida epica con se stesso e con chi lo considera un uomo finito. Pierre, infatti, decide di attraversare la Francia partendo dalle montagne alpine del Mercantour fino alle spiagge della Bretagna percorrendo ben 1300 km. Un percorso lungo il quale si ferma a dialogare con la natura ed il mondo intorno a lui, instaurando una serie di riflessioni con se stesso. Una sorta di rinascita che ha il sapore della redenzione.
Le fasi della vita
Arrivato al suo terzo film Denis Imbert affronta una vicenda che, dal punto di vista emotivo e strutturale, è profondamente diversa dai due progetti portati a termine fino a questo momento, anche se il rapporto con la natura non è certo una materia estranea. Come già sperimentato in Vicky e il suo cucciolo, dunque, interpreta il mondo esterno come un elemento attraverso il quale lenire le diverse ferite inferte dalla vita.
In questo caso, però, il percorso narrativo è sicuramente caratterizzato da maggiori incognite e lati oscuri. Il più grande, se non quello fondamentale, è proprio il personaggio di Pierre che si presenta in una dualità evidente e assolutamente contrastante. In un primo momento, infatti, l’uomo è mostrato nella futilità di un’esistenza fatta di eccessi dove crede d’incarnare il concetto stesso di successo e invincibilità. Successivamente, dopo il volo di otto metri dal quale si risveglia invecchiato di cinquant’anni, assume un atteggiamento diverso dovendosi sintonizzare su di un corpo ed un aspetto che non riflette più forza e successo.
Tutti elementi, dunque, che mostrano chiaramente la presenza di un personaggio dalla personalità composita e sfaccettata, la cui rinascita non è priva di ombre. Un uomo, dunque, complesso cui il regista, però, non riesce a dare la dovuta tridimensionalità. Un effetto che si percepisce in tutte e due le fasi della sua vita ma che si fa ancora più evidenti nel momento in cui affronta la sua nuova avventura. In questo senso, dunque, Imbert non ha il coraggio di addentrarsi fino in fondo nelle motivazioni che muovono Pierre e, soprattutto, in quel relativo disinteresse sviluppato nei confronti dell’umanità. Ciò che viene essenzialmente mostrato, infatti, è un racconto che segue il famoso monito di Thoreau, secondo cui la guarigione altro non è che un processo vegetale e, proprio per questo motivo, è probabile che avvenga attraverso l’ambiente che ci circonda.
Il potere della natura
L’elemento narrativo che prende decisamente il sopravvento all’interno di questa narrazione e lo fa in modo efficace, dunque, è proprio la natura. Attraverso l’utilizzo di una camera a mano, infatti, si rende il contesto in cui ci si trova e le difficoltà affrontate sicuramente più realistiche.
Allo stesso tempo, poi, l’ambiente intorno assume il valore di libertà e fuga. Due elementi che, slegandosi dalle costrizioni sociali e dalle aspettative del così detto mondo moderno, permettono all’uomo di raggiungere una condizione assoluta di riconoscibilità. In questo senso il film sceglie di seguire fedelmente la strada tracciata dal romanzo di Sylvain Tesson, offrendo lo spazio per mostrarsi ad altri tipi di realtà. In particolare al mondo rurale incontrato da Pierre e che, ai suoi occhi, rappresenta la soluzione e lo stile da perseguire.
Ovviamente questa è la scelta abbracciata dal personaggio ma è anche il modo per ricordare a tutti che esiste una sana via di mezzo tra l’inseguimento della tecnologia a tutti i costi e la vita da eremita. Certo, al termine della visione l’istinto di abbandonare tutto e fuggire in un viaggio di scoperta è chiaro ed evidente. A sedurre, infatti, è la sensazione di libertà, di riappropriazione assoluta del proprio tempo che l’atto del camminare senza vincoli relazionali porta con se. Anche in questo caso, però, la natura fugge dal rischio di una ricostruzione idealista e riporta il senso del film verso un livello più concreto. Perché fuggire, scegliere uno stile di vita diverso non è sinonimo di facilità. Anzi, il più delle volte, impone di affrontare un cammino impervio dove la fatica deve sempre essere considerata come un passaggio necessario.
La recensione in breve
L'uomo e la natura. Su questo binomio Denis Imbert prova a dirigere un film in cui il concetto di rinascita è centrale. In questo rapporto, però, il protagonista Pierre viene fagocitato dalla potenza del mondo esterno che lo circonda. Uomo complesso e sfaccettato, infatti, non trova mai pienamente la sua struttura tridimensionale. Al contrario, invece, la natura, feroce, ruvida e assolutamente indulgente si trova costantemente in primo piano come un protagonista che conduce il gioco, promette, concede diverse possibilità ma chiede anche un confronto con se stessi senza possibilità di fuga.
- Voto CinemaSerieTV