Il film: Adagio, 2023. Regia: Stefano Sollima. Cast: Pierfrancesco Favino, Adriano Giannini, Toni Servillo. Genere: Thriller. Durata: 127 minuti. Dove l’abbiamo visto: al Festival di Venezia.
Trama: Mentre Roma è circondata dagli incendi, nella capitale si consuma una caccia all’uomo brutale che fa riemergere un’oscura eredità.
Dopo aver affondato le mani nella melma addensata nei suoi sobborghi con Suburra, Stefano Sollima torna a Roma. Lo fa dopo aver intrapreso un viaggio lungo che lo ha portato sin oltreoceano, alla corte hollywoodiana. Qui ha raccolto il testimone di Denis Villeneuve con il sequel di Sicario, Soldado, per poi sperimentare anche il cinema da piattaforma con il non esaltante Senza rimorso.
Adesso, però, torna a Roma. Lo fa con Adagio, thriller cupo, umbratile, girato e ambientato tutto al cospetto della notte. Un film a suo modo solido, che si fa carico dell’esperienza americana, ma che accogliendo questa si fa anche in parte derivativo e impreciso. Andiamo più nel dettaglio con questa recensione di Adagio, presentato in Concorso nella selezione dell’80esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
La trama di Adagio
Roma è circondata dalle fiamme. Brucia tutto appena fuori dalla città. Colonne di fuoco si alzano a pochissimi chilometri di distanza dalla capitale e la cingono in una morsa da cui pare non esserci scampo. Fa caldo, ventilatori e condizionatori sono sempre accesi e non bastano le dita delle mani per contare quanti blackout ci sono durante il giorno. È uno scenario d’apocalisse, quello in cui Sollima e Stefano Bises, che scrivono assieme la sceneggiatura, ambientano il film.
Un teatro da fine del mondo dove la sporcizia si aggruma assieme al sudore e i confini della morale si fanno molto labili. In questo contesto, Manuel (Gianmarco Franchini) ha sedici anni e cerca di godersi la vita come può, mentre si prende cura dell’anziano padre (Toni Servillo). Finisce però vittima di un ricatto e decide di scappare, ritrovandosi invischiato in questioni ben oltre la sua portata.
Guardie e ladri
In questa Roma chiusa, circolare e divorata da se stessa, emergono le linee direttrici di un thriller che alla sempre più flebile prospettiva di un futuro contrappone l’eterno ritorno di certe violenze e certe realtà. Così quando entrano in scena i nomi di Daytona (Servillo), Pòl Niuman (Valerio Mastandrea) e il Cammello (Pierfrancesco Favino) emerge anche l’eredità di un passato che contamina il presente e che Adagio sfrutta per giocare al gioco delle fazioni e dei ruoli. Da una parte i ladri, forse vecchie scorie di una banda della Magliana di cui resta poco più che il nome, dall’altra le guardie (un ottimo Adriano Giannini, Francesco Di Leva e Lorenzo Adorni), che a loro volta sono invischiate in una partita ben poco nobile.
E nel reggere fra le mani il viscido di questi personaggi fatti e finiti per essere funzionali a una trama da mantenere il più possibile in movimento, Adagio guarda a dinamiche e ad estetiche che poco inventano. Non può esimersi insomma dal lavorare sui toni freddi, sui led e sui contrasti, contaminando comunque il tutto con il perenne sudore che imperla le fronti e i corpi dei personaggi, sempre più insanguinati, luridi e feriti con il procedere del racconto.
Composto, ma non troppo teso
Magari, a questo incedere in avanti tra sparatorie a aggressioni, manca un po’ di ritmo, un po’ di verve. In più di un’occasione ci si sofferma a contemplare simboli e parallelismi, a ragionare sulle paternità mancate e quelle volute, a portare in superficie con un pizzico di pigrizia il discorso dell’eredità lasciata da subire – non si viaggia troppo lontano se in queste fiamme che divorano tutto si legge anche la catastrofe del cambiamento climatico.
Ad Adagio manca insomma una maggiore tensione strutturale di fondo. Gli si può recriminare poco sul lato della costruzione narrativa, forse molto essenziale, ma che fa quel che deve fare riuscendo a integrare anche in maniera dignitosa lo scivoloso contesto urbano di Roma. Il film di Sollima sembra però accelerare a dosi troppo ridotte, prendendosi uno spazio – quello delle due ore di durata – che lo privano dello scatto che sembra essere sempre a un passo e sempre di un passo rimane a distanza.
La recensione in breve
Il nuovo thriller di Stefano Sollima è un film dagli spunti abbastanza solidi, che tuttavia non si eleva al di sopra di altri esponenti del genere.
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